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Anche le persone migranti nei Cpr sono a rischio

Da una decina di giorni l’Italia vive la più grande emergenza sanitaria del mondo occidentale, con contagi da coronavirus crescenti e un altissimo prezzo in termini di vite umane. Proprio per questo, si sono attivate tutte le misure possibili per creare distanza sociale, ovvero per ridurre la vicinanza fisica tra le persone e contenere, per quanto possibile, la diffusione del virus, o se non altro mitigarne gli effetti sul sistema sanitario evitando che ci si ammali tutti insieme. Per questa ragione, sono stati chiusi gli esercizi commerciali non essenziali, sospesa l’attività didattica nelle scuole e nelle università di ogni ordine e grado, tutte le attività sportive e culturali, fino ad arrivare all’esplicita richiesta ai cittadini italiani di rimanere a casa. Tuttavia, ci sono dei luoghi che sono rimasti sostanzialmente immutati, ovvero quelli del sistema di gestione dell’immigrazione in Italia, e in particolare i CPR, i Centri di Permanenza per il Rimpatrio,

Gianfranco Schiavone, giurista e vicepresidente di Asgi, l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, racconta che questi luoghi, che in questo periodo di chiusure generalizzate sono rimasti al tempo stesso aperti come servizio, ma come sempre chiusi verso l’esterno, «si trovano in condizioni gravissime, perché sono luoghi sovrappopolati». Fino a oggi, le istituzioni non hanno previsto lo stop neppure a nuovi ingressi, «e parimenti – prosegue Schiavone – non ha previsto una cosa fondamentale, cioè la cessazione delle misure di trattenimento, che tra l’altro è disposta proprio dalla legge quando non ci sono ragionevoli aspettative di effettuare il medesimo. I viaggi verso altri Paesi dall’Italia sono bloccati per chiunque, e quindi anche per queste persone».

Insomma, la misura dell’allontanamento forzato non può essere eseguita, nonostante l’appello lanciato anche dal Garante Nazionale per le persone private di libertà, Mauro Palma. Schiavone ricorda che «la stessa direttiva europea dice con estrema chiarezza che laddove il rimpatrio non può essere eseguito per qualunque ragione, il trattenimento deve cessare. Non siamo di fronte a una a una pena detentiva, ma a un trattenimento amministrativo finalizzato all’esecuzione di una misura. Se questa misura è impossibile il trattenimento non ci dev’essere».

All’interno di questi spazi esiste, certo, un principio sanitario interno, ma ha spesso grandi lacune, prima di tutto a causa del sistematico sovraffollamento, e poi perché non prevede una presenza medica costante. Inoltre, quello dei CPR non è un caso isolato, ma si inserisce nel più complesso sistema della gestione del fenomeno migratorio in Italia, che oltre alle misure di trattenimento ed espulsione comprende anche il tema dell’accoglienza, oggi non esente da criticità in termini sanitari. «Il problema – spiega il vicepresidente di Asgi – è la gestione dei grandi centri di accoglienza per i richiedenti asilo. Sono aperti, ma a causa della politica che ha seguito il governo precedente nell’ultimo anno e mezzo, finora non modificata, c’è stata una progressiva rarefazione del sistema dell’accoglienza diffusa, che invece è ottimale e che oltre a produrre enormi vantaggi economici, sociali e culturali per il nostro Paese e per le persone che sono accolte, anche in questo caso si sarebbe rivelata uno straordinario strumento attuazione delle misure contro la diffusione del coronavirus, perché parliamo di situazioni abitative ordinarie e quindi abbiamo un tasso di rischio uguale a quello del resto della popolazione».

Tuttavia, all’accoglienza diffusa è stato spesso preferito nel recente passato il ricorso a strutture di grandi dimensioni, alcune addirittura destinate a 400 persone in un contesto impossibile da controllare. «Oggi – sottolinea Schiavone – queste strutture si rivelano delle vere e proprie bombe, sia per il numero delle persone che sono lì accolte, che possono uscire ma che in questo periodo ovviamente non possono, e che sono seguite da un numero risibile di operatori e di mediatori linguistici perché per l’appunto i servizi sono ridotti all’osso».

Parliamo di numeri elevatissimi: è ragionevole pensare che strutture di questo tipo oggi comprendano circa 50 mila persone in carico, una popolazione simile come dimensione a quella carceraria, di cui si è parlato molto perché le carceri sono uno dei luoghi più preoccupanti e anche più preoccupati in questo momento. Anche per questo, lo scorso 13 marzo decine di avvocati e diverse associazioni, tra cui proprio Asgi, hanno inviato al ministero dell’Interno una lettera per chiedere l’attuazione di misure di limitazione del rischio. Tuttavia, finora da un punto di vista istituzionale non sono arrivate risposte.

«Tra poco – spiega Gianfranco Schiavone – ci sarà un nuovo documento, ancora più articolato e a cui speriamo segua una risposta. In questo documento faremo riferimento a tutti i temi di cui abbiamo parlato ma anche alle questioni dell’accesso alla procedura. Oggi gli sportelli delle questure sono chiusi, anche se non dovrebbero esserlo almeno per le pratiche essenziali tra cui la presentazione della domanda d’asilo. Se a una persona viene impedito, materialmente e proprio per assenza dei servizi, di accedere alla procedura abbiamo persone in strada che non hanno né un titolo e neanche un alloggio, e questo crea un circolo vizioso così come lo è per ahimè il tema gigantesco dei senza fissa dimora, per i quali questo Paese non ha fatto assolutamente nulla. Sappiamo che i servizi per l’emergenza freddo sono insufficienti e tra l’altro terminano il 31 di marzo, dovrebbero essere quanto meno prorogati e sappiamo soprattutto che coprivano solo una parte del bisogno. Oggi le pubbliche autorità dovrebbero allestire strutture nuove ad hoc per collocare qualunque persona, sia di giorno che di notte, e qualunque sia la sua condizione giuridica. Questo è il piano nazionale che manca».

 

Foto da openmigration.org