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Fare prevenzione nei ghetti

A partire dalla seconda metà dello scorso febbraio, il governo italiano ha promosso iniziative per la prevenzione dei contagi da Sars-CoV-2, il nuovo coronavirus. Al primo elenco in dieci punti di comportamenti da seguire sono succeduti diversi decreti volti a limitare quanto più possibile i contatti tra le persone, ponendo dei paletti ai loro spostamenti, fornendo indicazioni riguardo alle distanze da mantenere. Tutti i media d’informazione hanno rilanciato con forza queste direttive, e da qualche giorno si sono iniziate a vedere città meno affollate, piazze semideserte, segno che la prevenzione potrebbe aver imboccato la giusta strada.

Esistono però dei non-luoghi nel nostro Paese, zone grigie in cui è difficile che la giusta informazione arrivi. Luoghi spesso affollati, in cui le persone piccole baracche o tende e in cui è impossibile rispettare le distanze interpersonali. Luoghi in cui manca l’acqua per lavarsi e distanti dal rispetto delle norme igieniche. Questo sono i ghetti e le tendopoli dei braccianti del sud Italia.

È la condizione sociale stessa delle persone che abitano in questi non-luoghi a renderli particolarmente esposti a malattie come la Covid-19. Se una persona si ammala in questi contesti la diffusione del virus può essere molto rapida.

Per questi motivi Mediterranean Hope (il programma migranti e rifugiati della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia) e le associazioni Medici per i diritti umani (MEDU), Sanità di Frontiera e Csc Nuvola Rossa e Co.S.Mi. (comitato solidarietà migranti) che forniscono assistenza sanitaria, legale e sociale in particolare a chi vive negli insediamenti informali della piana di Gioia Tauro in Calabria, hanno lanciato un appello al governo italiano. Francesco Piobbichi, operatore di Mediterranean Hope, lo riassume così: «“Cosa intendete fare?”. Il decreto del governo dà poteri ai prefetti per poter intervenire, dalla possibilità di requisire alberghi, alloggi a fare altri tipi di interventi. Noi diciamo: “Iniziate”. Quantomeno date l’acqua, cercate di mettere più tende per distanziare le persone e nelle situazioni informali come il ghetto di Tauria Nova, dove è ben difficile poter sviluppare politica di tutela della salute pubblica, smontate nel diritto questi ghetti assicurando alle persone un alloggio dignitoso».

La direzione del lavoro sarebbe a questo punto doppia. Da un lato significherebbe entrare nella dimensione logistica per poter assicurare a tutti i braccianti un’abitazione. Dall’altro vorrebbe dire entrare nel merito dei diritti: «molte di queste persone sono diventate irregolari e altre lo stanno diventando per effetto del pacchetto sicurezza dell’ex Ministro dell’Interno Salvini. Chiediamo quindi che ci sia un intervento omnicomprensivo», continua Piobbichi».

Le associazioni che operano sul campo come Mediterranean Hope in questo momento stanno anche tentando di sopperire a quella mancanza di informazioni per chi vive nei ghetti, innanzitutto diffondendo l’elenco dei dieci punti per la prevenzione. Poi si distribuiscono materiali igienizzanti e consigli sulle buone pratiche, ma è un lavoro difficile. «Dopo anni e anni di politiche di pressione di tipo penale e autoritario queste persone non hanno quello spazio pubblico di confronto che noi cittadini abbiamo. Pensiamo all’accesso a cure, a informazioni dirette, a rete di relazioni nel territorio che ci guida. La condizione dei braccianti è di essere separati da ancora prima di questa crisi, e ora rischiano di essere lasciati lì al loro destino. Per il nostro mandato non possiamo tacere», conclude Francesco Piobbichi.