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Un silenzio squarcia i confini

A inizio marzo quattro gommoni con a bordo circa 220 migranti sono giunti sull’isola greca di Lesbo. Sulle rive, ad attenderli, un gruppo di abitanti del posto contrari allo sbarco che hanno attaccato i richiedenti asilo. Li hanno aggrediti con urla che hanno addirittura ammutolito i bambini. L’immagine sconcertante di un’Europa che non solo vede tutto ma non agisce, esattamente come i poliziotti greci davanti all’attacco avvenuto a Lesbo, ma che in più gira la testa e pensa ad altro. Lasciando un vuoto che avrà bisogno di essere spiegato, raccontato. E ricordato, ancora di più, come il silenzio assordante di certi bambini e di un futuro che ci appartengono anche se non li guardiamo.

In un mondo costruito sui confini raccontare i varchi che li squarciano è diventato necessario. Leggerli, ritrovarli vicini o lontanissimi ma possibili è un atto di ribellione e di libertà che l’attualità non sempre riesce a concedere. La sofferenza dei muri che si alzano e l’impossibilità di fare qualcosa di concreto davanti alle notizie assorbono le nostre vite quotidiane e le toccano, le feriscono per un lasso di tempo sensibile e variabile. Eppure accade, e non ci lascia indifferente. Dalla Grecia a Lampedusa, dalla Libia fino a uno dei confini più tremendi, discussi e martoriati: quello che separa il Messico con gli Stati Uniti. Più di 1000 km di muro, quasi 300 morti all’anno e una quantità infinita di conseguenze sulle popolazioni americana e messicana.
Un confine maledetto, che la politica americana degli ultimi anni ha contribuito ad inasprire e a rendere sempre meno accessibile. E con esso anche la libertà di movimento di chiunque desidera solamente un futuro migliore.

L’archivio dei bambini perduti inizia con un’immagine pazzesca e normalissima. Una famiglia irregolare, una macchina piena di scatoloni e un suono da inseguire. Un uomo e una donna, due documentaristi che si sono conosciuti raccogliendo suoni in giro per New York, i figli avuti nelle rispettive relazioni precedenti e la sfida di un viaggio americano, lunghissimo e pieno di tramonti densi. La donna, la compagna e madre deve raggiungere il confine sud per raccontare il destino dei “mena” (in spagnolo “menores extranjeros no acompanados”) o UAC (negli Stati Uniti “Unaccompanied Alien Children”). L’uomo, il padre e l’amante desideroso di andare ad ascoltare i suoni del luogo in cui l’ultima banda di guerrieri apache si è arresa agli americani. Un’atmosfera in movimento e sempre delicata e languida, il tutto con uno scambio di sguardi e di prospettive che stupiscono e commuovono questo percorso verso una frontiera non solo fisica ma anche emotiva, interiore, spirituale.
Valeria Luiselli (Città del Messico, 1983) è la prima scrittrice di origine italiana ad aver vinto il Booker Prize. Ci ha impiegato 4 anni a scrivere questo romanzo che ha scavato in profondità nella sua anima e nel respiro ampio, sconsiderato e crudele degli Stati Uniti. Con l’Archivio dei bambini perduti (La Nuovafrontiera) è stato narrato come nello scorrere placido del tempo di un viaggio possano apparire all’orizzonte le risposte e le conseguenze del “sogno americano”. Un’ideale che non risparmia nemmeno i bambini, che diventano sigle, che perdono l’anima e non hanno più una voce. “A differenza di altri modi di descrivere il mondo, il suono ci obbliga a rallentare”, e questa calma, questa pausa che si fa sottofondo è la rivalsa colma di libertà, un sentimento a cui aggrapparsi nei tempi bui. Giorni, mesi, anni che durano da troppo tempo e che si trascinano dietro silenzi senza storie.

Archivio dei bambini perduti, Valeria Luiselli, La NuovaFrontiera, 416 p.,20 euro