640px-putin_and_erdogan_during_handshake_istanbul

Idlib, quali prospettive oltre il cessate il fuoco?

Lo scorso giovedì 5 marzo, i presidenti di Russia e Turchia si erano accordati per una tregua nella provincia di Idlib, in Siria, con l’obiettivo di fermare l’ulteriore inasprimento delle violenze che stacaratterizzando il 2020 nel Paese, ormai entrato nel decimo anno di guerra. In particolare, gli ultimi mesi avevano visto gli eserciti di Damasco e Ankara, dopo anni trascorsi a combattere per interposta persona, affrontarsi nella regione nordoccidentale del Paese, all’intersezione tra le autostrade M4 (che collega Latakia ad Aleppo) ed M5 (Damasco-Aleppo), le due arterie più importanti per la Siria. L’accordo, che prevede la creazione di un “corridoio di sicurezza” lungo la M4, è oggi controllato da soldati russi e turchi, che conducono pattugliamenti congiunti con lo scopo di separare l’esercito turco da quello siriano. A oggi la tregua regge, nonostante episodici combattimenti, ma guardando la mappa dell’accordo ci si rende conto di quanto la situazione non rappresenti un’evoluzione rispetto agli accordi del passato. A dirlo è anche Fouad Roueiha, giornalista che segue l’evolversi del conflitto siriano sin dalle sue origini, da prima che si trasformasse in una guerra al tempo stesso civile e per procura. «Di fatto questo nuovo accordo, se vogliamo chiamarlo così, ricalca quelle che erano già le intese prese a Sochi, all’interno del cosiddetto “processo di Astana”, questo processo di pace parallelo a quello delle Nazioni Unite, avviato qualche anno fa appunto da Turchia, Russia e Iran. Di fatto è cambiato poco: si parla della fascia di territorio di sette chilometri a nord e sette chilometri a sud di questa autostrada, divisa appunto fra turchi e russi che viene pattugliata da pattuglie congiunte di questi due Paesi. Da notare come i siriani non abbiano alcun ruolo in questo».

Ma quali sono gli effetti del cessate il fuoco per la popolazione?

«Sicuramente c’è stata una forte diminuzione dei combattimenti in generale, nonostante qualche episodio e qualche tentativo, soprattutto dell’esercito lealista, di approfittare del cessate il fuoco per avanzare sul terreno, com’è sempre avvenuto in questi anni. Di fatto il cessate il fuoco ha bene o male quasi retto. Tuttavia, abbiamo sempre oltre un milione di persone ammassate contro il confine turco-siriano, abbiamo comunque persone che non stanno tornando verso le loro case, quindi la situazione non è migliorata in maniera drastica. Certo, non ci sono più i bombardamenti, che è la cosa più importante, tuttavia la gente continua a morire di freddo».

La zona di Idlib è il luogo in cui si è mandato tutto quello che non si voleva vedere degli altri assedi, ovvero tutti gli oppositori e tutti i miliziani. Ovviamente è diventato un problema sempre più grande, al punto che oggi non sembra esistere una via d’uscita. Eppure, sin dal 2011 abbiamo ripetuto che non esistono alternative a una soluzione non politica del conflitto siriano. Ma oggi non si è creata una situazione per cui una soluzione politica non esiste?

«È vero, abbiamo ripetuto fino alla nausea che non esiste una soluzione militare, ma abbiamo ripetuto fino alla nausea una bugia, perché in tutto il Paese tutte le soluzioni sono state militari. Idlib è stato il luogo in cui è stata concentrata una porzione di popolazione, oltre che chiaramente guerriglieri, che è indesiderabile e indesiderata da parte del regime siriano in quanto non fedele. Quello che sta avvenendo è che il regime vorrebbe riconquistare integralmente il territorio, non riacquisire il controllo su quella parte di popolazione che comunque non vuole più, un po’ perché ostile, un po’ perché non controllabile, e tra l’altro è stato anche dichiarato in varie occasioni da vari alti esponenti militari che la presenza di determinate persone non è gradita. Quello che tuttavia non c’è è un luogo in cui queste persone possano andare: la Turchia ha già assorbito milioni di rifugiati e nel resto del mondo non c’è questa grande disponibilità, nonostante lodevoli iniziative umanitarie di qualche Paese, che nonostante anche poche possibilità magari ha anche cercato di aprire le porte».

Quindi verso quale scenario andiamo?

«Quello che si rischia è una soluzione simile a quella della Striscia di Gaza, cioè di un’area considerata ostile, assediata e circondata a lungo termine. In questo caso a garantire in qualche maniera la sicurezza di quest’area sarebbe la Turchia, la quale in cambio tra l’altro otterrebbe anche l’opportunità di ricollocare una parte di quei rifugiati siriani che si trovano in Turchia nella parte siriana, sotto il proprio confine in modo da creare una fascia araba fedele alla Turchia e in qualche maniera a dividere la popolazione curdo-turca della popolazione curdo-siriana. In tutto ciò vediamo che porzioni di popolazione siriana vengono utilizzate come fossero mattoni con cui costruire muri, fiches da giocare su un tavolo verde che è sempre di più simile a un tavolo da roulette internazionale, di cui peraltro la Siria non è l’unica parte in gioco. Vediamo che tra l’altro anche la Libia è coinvolta in questa dinamica, con da una parte la Turchia che ha inviato qualche migliaio di suoi mercenari “acquistati” in Siria, perché non trovo un termine migliore, dall’altra la Russia che invece sta arruolando rifugiati siriani in Libano per portarli appunto a combattere sull’altro fronte libico. Di conseguenza, avremo la Turchia e la Russia, che già giocano una partita simile a quella che giocano in Siria, anche in territorio libico».

C’è invece un fatto interessante di cui i siriani sono protagonisti e che sta avvenendo decisamente più a sud, ovvero una serie di proteste nel governatorato di Daraa, al confine con la Giordania, ovvero uno dei luoghi da cui erano partite le proteste del 2011. Chi scende oggi in piazza?

«È davvero qualcosa di cui non si sta occupando nessuno: ci sono state proteste, anche attentati in realtà, non solo proteste pacifiche e nonviolente. È quella porzione di popolazione che non ha accettato di tornare sotto il regime e che quindi continua clandestinamente, non in maniera aperta come ha fatto negli ultimi anni, a protestare contro il regime di Assad. E questo è avvenuto fin dal giorno della riconquista del regime siriano e avviene con sempre maggiore costanza. Probabilmente quello che avviene a Daraa è qualcosa che suggerisce al regime siriano che non può pensare anche di contenere quella parte di popolazione che sta cercando di espellere da Idlib. Vediamo che nel momento in cui la situazione si calma in qualche maniera da sotto la cenere riemergono le fiamme della protesta».

Stiamo parlando di una nuova generazione o sono le stesse persone di nove anni fa?

«Penso proprio che sia una nuova generazione, anche perché le persone di nove anni fa in larga parte sono o morte o fuori dal Paese».

 
Foto da Kremlin.ru