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Portavoce di Bergman, presenza ieratica sempre

Un’icona, una cifra, un portavoce: in molti modi si può definire la presenza assidua di Max von Sydow, scomparso domenica a quasi 91 anni, nel cinema di Ingmar Bergman. Il regista svedese, come molti suoi colleghi altrettanto illustri, si è valso della presenza assidua di un certo numero di collaboratori fidati, dal direttore della fotografia Sven Nykvist ad alcuni attori e attrici di gran valore. Spesso a von Sydow affiancava Gunnar Björnstrand e, qualche anno dopo, fino all’ultimo Sarabanda (2003), utilizzò come alter ego Erland Josephson; sul versante femminile Harriet Andersson, Bibi Andersson, Ingrid Thulin, Liv Ullmann. Si trattava per il regista di creare una comunità ideale, che comprendeva amicizie, amori, matrimoni e divorzi ogni volta che si accingeva alla realizzazione di un progetto. Altri casi celebri di “affidamento” delle proprie idee a interpreti ricorrenti sono stati Anna Karina e Marina Vlady per Jean-Luc Godard, Jean-Pierre Léaud per François Truffaut, Fernando Rey per Luis Buñuel, e anche tantissimi altri.

Non si deve pensare, tuttavia, ai modelli che abbiamo più vicini, quelli della commedia italiana, troppo spesso basata sui “mattatori”, a volte fin troppo ingombranti pur nella loro bravura e genialità. Bergman non si faceva scrupolo di “usare” i suoi collaboratori, facendo ruotare la distribuzione degli incarichi, anche tenendo conto delle logiche contrattuali di una struttura autorevole come la casa di produzione Svensk Filmindustri.

Capita così – come è capitato a generazioni di spettatori – di rimanere folgorati da von Sydow nel ruolo del cavaliere Antonius Block (Il settimo sigillo, 1956); ma la sua interpretazione non avrebbe senso se non fosse antagonista a quella di Gunnar Björnstrand, che del cavaliere è lo scudiero Jons: credente deluso il primo, partito per la Crociata con la speranza di trovarvi il Dio che non gli parlava più, non riportandone a casa che morte e desolazione, la peste e il rogo della presunta strega per porvi fine (riflettano a quest’ultimo dettaglio quanti dicono che un tempo di fronte alle epidemie c’era più fede e si pregava, mentre oggi si chiudono le chiese!); ateo materialista il secondo (mentre il cavaliere prega, nel finale, Jons rivendica la grandezza del gesto di poter ancora… «muovere le dita dei piedi». Insomma, il film è costruito dal punto di vista narrativo sulla partita a scacchi che Block intraprende con la Morte, ma anche sulla dialettica tra visioni opposte: tutto è finalizzato e governato dall’idea dell’autore. Eppure è con un gesto dall’apparenza casuale (finge una sbadataggine con la manica, rovesciando alcuni pezzi degli scacchi e distraendo la Morte, e così consente di fuggire alla giovane famigliola di attori girovaghi) a manifestare, al di là delle disquisizioni teologiche, il concretarsi dell’amore per gli altri. Poi, il cavaliere potrà andare sereno incontro al proprio destino.

Curiosamente, ma in Bergman niente è casuale, il film gemello e diversissimo realizzato nell’arco dello stesso anno (Il posto delle fragole, 1957) vede von Sydow in un ruolo più che marginale, eppure significativo: un benzinaio che fa il pieno alla vecchia auto del vecchio medico e professore che, recandosi a ricevere un’onorificenza universitaria, in viaggio con la nuora e alcuni altri strani personaggi, compie un bilancio impietoso della propria esistenza, fatta di prestigio accademico, durezza verso il figlio, insensibilità. È proprio il benzinaio a raccontare al protagonista quanto fosse stata preziosa la sua opera quando era un giovane medico condotto e quante persone gli siano riconoscenti. Questa rivelazione apre uno squarcio nella memoria e nell’animo del vecchio medico, eppure viene da una quasi comparsa, ma quanto autorevole, con la sua presenza fisica dinoccolata e gli occhi che guardano lontano.

Max von Sydow non è peraltro riconducibile al solo cinema di Bergman: a parte alcuni grandi ruoli da protagonista, in film anche diversissimi e di diverso valore come L’esorcista o Il lupo della steppa, restano indimenticabili i ruoli, anche minori, in cui faceva valere il proprio aspetto ieratico, al di là delle istanze di cui si faceva portavoce. In questo senso primeggia senz’altro Il deserto dei Tartari di Valerio Zurlini (1976), in cui ha raffigurato l’aspetto tristemente crepuscolare del capitano Ortiz, il primo a incontrare il giovane sottotenente Drogo, e a fargli intuire la vacuità dell’attesa. A cavallo, guardava ancora più lontano, la storia del cinema non prescinde dalla sua presenza evocativa, e sembra, ancor di più dall’altroieri, diventare una storia lontana…