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Ciò che un’emergenza può insegnare

Con la dimissione ai primi di marzo dell’ultima paziente dal Centro sanitario di Beni (nella provincia del Kivu nord), è finita l’epidemia di Ebola nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc). Dopo 19 mesi, più di 3400 contagiati e 2264 i morti con un’alta percentuale di bambini (il 30% aveva meno di 14 anni) termina la seconda peggior epidemia nella storia di questo virus considerato il più letale al mondo, rispetto al quale, ancora la scorsa estate, l’Oms proclamava l’emergenza nazionale.

Già l’11 febbraio, in occasione di un briefing sulle emergenze Ebola e Covid19, il direttore generale dellOrganizzazione mondiale della sanità (Oms) Tedros Adhanom Ghebreyesus commentava le notizie incoraggianti che davano soli tre nuovi casi nella settimana precedente, pur ritenendo che la prima questione continuava a essere «un’emergenza sanitaria di livello internazionale», e che «finché c’è un singolo caso di Ebola in un’area insicura e instabile come la Rdc orientale rimane la potenzialità di un’epidemia molto più ampia».

Nelle ultime due settimane non si sono registrati nuovi casi e, sebbene sia ancora presto per dichiarare debellata l’infezione, il virus non ha più fatto vittime e si può parlare di “cauto ottimismo”.

Terminata questa emergenza, però, il paese africano si trova di fronte alla nuova emergenza sanitaria del Covid19, rispetto alla quale i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (Africa Centres for Disease control and Prevention) hanno identificato la Rdc come uno dei 13 paesi più a rischio, per i suoi collegamenti diretti con la Cina.

E purtroppo non è l’unica minaccia sanitaria nel paese, ha sottolineato lo stesso direttore generale dell’Oms: «se l’Ebola ha ucciso 2249 persone in Rdc, il morbillo ne ha uccise più di 6300 in meno tempo» e «solo metà delle strutture sanitarie ha accesso all’acqua». In tali condizioni «la nostra paura più grande rimane il danno che questo coronavirus potrebbe fare in un paese come la Rdc», ha commentato Ghebreyesus. Lo scorso anno una massiccia campagna di vaccinazioni contro il morbillo, che ha coinvolto oltre 18 milioni di bambini fino a 5 anni, ha cercato di tamponare la situazione del più grande focolaio a livello mondiale, e da pochi giorni è cominciata una seconda campagna di vaccinazioni.

Lo stesso Ghebreyesus ha però anche dichiarato che «alcuni paesi in Africa, tra cui la Rdc, stanno sfruttando le capacità che hanno sviluppato contro Ebola anche per affrontare il Covid-19».

Della necessità di tenere a mente quanto imparato dalla precedente emergenza è consapevole anche il personale degli ospedali: quello dei presidi sanitari della United Methodist Church, molto attiva su questo fronte (ne avevamo parlato qui) si è per esempio ritrovato (come si legge qui) per riflettere e rielaborare strategie di prevenzione più efficaci.

Tra i punti chiave, la collaborazione con il governo congolese, il supporto di partner internazionali quali  Connexio (la rete di missione e diaconia della Chiesa metodista unita svizzera) o Harper Hill Global (agenzia per lo sviluppo fondata da una pastora della Umc, con particolare attenzione alle donne), nonché le agenzie sanitarie, di comunicazione e sviluppo della Umc (Global Ministries, Global Health unit, United Methodist Communications).

I medici sono consapevoli che il loro compito non è affatto finito, che il male non è stato completamente sradicato e che bisognerà continuare a lavorare duramente, come fatto finora, per raggiungere questo obiettivo, continuando a insistere sul rispetto delle norme igieniche, sull’importanza di stanze per lisolamento, dispositivi di protezione, kit per il lavaggio delle mani.

Anche le chiese hanno un compito importante nell’educazione e nella prevenzione, diffondendo insegnamenti importanti quali l’importanza di vaccinarsi, rispettare norme igieniche ed evitare di mangiare la carne di animali trovati morti nella foresta, come ha sottolineato il direttore di un ospedale della Umc a Bukavu.