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Ai margini del conflitto, nel cuore della crisi

Alla fine di febbraio il conflitto in Siria ha raggiunto una nuova dimensione, quella dello scontro diretto, e non più per procura, tra l’esercito siriano e quello turco. Mentre lo scontro diventava sempre più intenso, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan annunciava che la Turchia non avrebbe più bloccato alle sue frontiere i rifugiati siriani che intendano recarsi in Europa. Oggi, dunque, le persone stanno cercando di lasciare la Turchia per raggiungere il cuore dell’Europa dopo aver attraversato la Grecia, impresa che passa soprattutto dal valico di Evros e dall’isola di Lesbo, dove la polizia greca sta attuando violenti respingimenti senza alcun riguardo per il diritto internazionale ma con il pieno appoggio di Bruxelles, ancora una volta debole di fronte all’ennesimo ricatto di Ankara.

Ma che cosa succede a pochi passi dal confine siriano? Qui la presenza di rifugiati siriani è significativa sin dall’inizio della crisi, dai primi assedi e bombardamenti. Isabella Chiari, docente di linguistica all’Università La Sapienza di Roma, lavora sin dal 2013 a Gaziantep e Kilis, appena a nord della frontiera, con l’organizzazione che ha fondato, Amal for Education, supportata anche dall’Otto per mille metodista e valdese. Chiari racconta che «la città di confine in cui operiamo noi, Kilis, è la prima città che si incontra nella strada tra la Siria e la Turchia, nella strada da Aleppo verso la Turchia. Il numero dei siriani in questa regione è molto alto. Attualmente a Kilis sono più di 115 mila i siriani, più della popolazione locale, è la prima città in Turchia per presenza in percentuale rispetto alla popolazione turca, con più del 70% di siriani rispetto ai turchi. Gaziantep invece è una città molto sviluppata, con un profilo completamente diverso, ha più di due milioni di abitanti, però sono più di 500.000 i siriani, più distribuiti e anche con una demografica diversa, ma con una presenza molto massiccia se pensiamo alla tipologia di immigrazione che invece ad esempio tocca l’Europa e l’Italia stessa».

La zona di cui si parla non è molto lontana dalla regione di Idlib, oggi al centro degli scontri che hanno creato la più grande crisi umanitaria di questo conflitto, che dura ormai da nove anni. È cambiato qualcosa nelle zone in cui operate?

«Dobbiamo immaginare che in Turchia ci sono già 3.700.000 profughi, mentre al confine, ma ancora in territorio siriano, in attesa di una via di fuga dai luoghi più pericolosi, almeno un milione di persone, qualcuno dice addirittura un milione e mezzo. I passaggi dalla Siria alla Turchia sono relativamente pochi, si parla sempre di centinaia e non di migliaia di persone che attraversano il confine illegalmente. Sono i numeri che si sono sempre registrati dal momento in cui la Turchia ha chiuso le frontiere, numeri irrisori. Da un punto di vista strettamente tecnico, in Turchia non sono entrate ondate di profughi se non in casi rarissimi, per cui la Turchia direttamente come area di confine non è stata toccata».

Cosa dire invece del sentimento della popolazione locale?«Ecco, quest’area è stata toccata da una serie di risposte della popolazione locale, in particolar modo della popolazione turca, ma anche della popolazione siriana che ovviamente ha sentito la pressione e contro un’eventuale ipotesi di apertura ai siriani. Chiaramente c’è un senso di maggiore incertezza della popolazione siriana, che comunque va detto è a supporto dell’intervento turco, quindi mostra supporto morale per l’impegno che ha la Turchia in Siria. Tuttavia, l’accoglienza da parte della popolazione turca, e non parlo solo dell’istituzione, ma proprio in termini di convivenza, negli anni è cambiata profondamente verso il negativo. Tutti i discorsi che siamo abituati ad ascoltare anche in Europa, in Italia, sono emersi, cosa che invece nelle prime fasi dell’accoglienza non esisteva. C’era un approccio molto più positivo all’idea di accogliere persone che sono in bisogno, perché era percepita come una situazione molto provvisoria, mentre il prolungarsi della crisi ha fatto sì che sia cambiato il senso dell’accoglienza, così come, di conseguenza, le politiche»

Visto questo mutato atteggiamento, per chi come voi lavora su quel territorio in attività di cooperazione c’è qualche trasformazione?

«In questi sei anni abbiamo affrontato una serie infinita di problemi. La situazione non è migliorata, da un certo punto di vista è anche peggiorata. L’atteggiamento delle autorità non è sempre molto favorevole, è un atteggiamento comunque di diffidenza, in particolar modo per le organizzazioni che hanno attività anche in Siria per varie ragioni. Noi abbiamo attività di community center, quindi attività con bambini e donne di tipo educativo, soprattutto a Kilis e a Gaziantep. Anche dal punto di vista del rilascio dei permessi, dei controlli, c’è una situazione di maggiore rigidità da parte delle autorità rispetto al passato».

Essendo di fronte a una crisi protratta, ormai quasi permanente, come cambiano le priorità della cooperazione?

«Il problema che va affrontato oggi è la questione dell’inserimento nel mondo del lavoro, perché è uno dei problemi più grossi attualmente in Turchia. Ci sono un milione di ostacoli dal punto di vista burocratico e di interazione che non permettono alla comunità siriana di svolgere lavori legalmente, da tanti punti di vista, come per una legge che riguarda proprio le quote presenti in ciascuna azienda o organizzazione, quote di turchi rispetto a stranieri. I siriani in Turchia non hanno lo status di rifugiato e pochissimi hanno ottenuto la cittadinanza, quindi risultano stranieri, hanno una protezione transitoria, una protezione che gli garantisce educazione e accesso alla sanità è importantissima, però ancora ci sono notevoli ostacoli alla all’acquisizione di permessi di lavoro e quindi un’area da sviluppare per tutte le organizzazioni che operano sul territorio è quella dello sviluppo delle abilità di accesso lavorativo dell’informazione riguardante le possibilità di aprire delle attività anche in proprio, oltre che all’interno di aziende già attivate. Bisogna farlo perché altrimenti si avrà sempre un numero che è veramente stratosferico di cittadini che non possono partecipare attivamente o almeno legalmente allo sviluppo del Paese».