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Il bisogno di attaccarci alla vita

Hanau è una città di quasi 100 mila abitanti che si trova a pochi chilometri da Francoforte. Lo scorso 19 febbraio intorno alle 22 nel centro della città sono avvenute due sparatorie, entrambe vicino a un bar frequentato da persone di origini arabe e turche. Un attacco di matrice xenofoba in cui nove persone hanno perso la vite e altre sono rimaste ferite. Il giovedì seguente la polizia tedesca ha ritrovato l’uomo sospettato di aver sparato. Era morto nel suo appartamento, con lui senza vita anche il corpo della madre. Il ministro dell’Interno dell’Assia – la regione in cui si trova Hanau – e la cancelliera Angela Merkel hanno confermato la natura gravemente discriminante dell’accaduto e assicurato che il governo farà di tutto per opporsi a questa ondata di discriminazione grave e pericolosa.

Gli attentati del 13 novembre 2015 hanno completamente sconvolto la percezione della paura e del pericolo. Una serie di attacchi terroristici rivendicati dall’ISIS avvenuta nella regione dell’Ile-de-France. Tre esplosioni  e sparatorie tra cui la più grave avvenuta nel teatro Bataclan, in cui persero la vita 90 persone. Il secondo più grave atto terroristico nei confronti dell’Europa, subito dopo i tragici attentati dell’11 marzo del 2004 che causarono 192 morti e 2000 feriti.

Una paura nuova, il sentore collettivo e generazionale di non riuscire più a sentirsi al sicuro. A scuola, al lavoro, per strada e nemmeno nei luoghi di svago. Una paura che ha paralizzato e continua a tenere in scacco le grandi capitali europee in vista dei grandi eventi e l’opinione pubblica dinanzi all’attualità. Una condizione nuova, che dall’11 settembre 2001 è entrata prepotentemente nella realtà occidentale e costringe alla consapevolezza di una nuova fragilità; profonda e irreparabile.
Esseri umani, famiglie, giovani, lavoratori, future madri; vite spezzate per chi non ha avuto la possibilità di viverle ma anche per chi resta. A ricordare, a commemorare e a sopravvivere al dolore, al lutto e all’ingiustizia.

«Venerdì sera avete rubato la vita di una persona eccezionale, l’amore della mia vita, la madre di mio figlio. Eppure non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio neanche saperlo. Voi siete anime morte. Se questo Dio per il quale uccidete ciecamente ci ha fatti a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore. Perciò non vi farò il regalo di odiarvi. Sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete. Voi volete che io abbia paura, che guardi i miei concittadini con diffidenza, che sacrifichi la mia libertà per la sicurezza. Ma la vostra è una battaglia persa».
Antoine Leiris che il 17 novembre 2015, all’indomani degli attentati di Parigi, ha scoperto della morte della moglie al Bataclan. Leiris è rimasto da solo con un bambino di 17 mesi e tramite un lungo post di Facebook ha raccontato al mondo intero i suoi sentimenti. Una lettera straziante e contemporaneamente piena di speranza rivolta a chi ha organizzato l’attentato. Un messaggio di dichiarato amore per una moglie morta improvvisamente, per un figlio che crescerà senza madre e per la passione per la vita che – nonostante tutto – nessuno potrà mai avere il potere di togliere.

“Non avrete il mio odio” (Corbaccio, 2016) è tutto ciò che è arrivato dopo; un diario personale in cui le parole dell’uomo rimangono intime e prive di retorica. Leiris racconta com’è stato affrontare il lutto, com’è nato e si è rafforzato il legame con suo figlio, lo smarrimento e lo sguardo sul mondo.
Una testimonianza pura, inaspettata, piena di dignità e gentile. Gentile come il bisogno di attaccarci all’esistenza terrena, ai doni preziosi che ci lascia e agli insegnamenti che, nel bene o nel male, si possono trarre da essa.

Non avrete il mio odio, Antoine Leiris, Corbaccio, 128 p., 10 euro