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Siamo in “Status Confessionis?”

Avviamo oggi, e proseguiremo in questa settimana, la pubblicazione di alcuni interventi relativi allo “status confessionis”. L’argomento è stato portato all’attenzione del Sinodo 2019 delle chiese valdesi e metodiste, dopo che una consultazione della Comunione mondiale di Chiese protestanti («Resistere alle culture della discriminazione, dell’autoritarismo e del nazionalismo» – dicembre 2018) aveva portato alla formulazione del Documento di Bangkok. Ora ne stanno discutendo le chiese. Il primo articolo si deve al pastore Bruno Gabrielli che, nel dicembre scorso, ha ripercorso alcuni momenti della storia in cui le chiese si chiesero se la loro fedeltà al Signore non fosse stata compromessa da loro comportamenti e scelte. A seguire, da domani a venerdì,  il testo del Documento di Bangkok e gli interventi di Claudio Pasquet e Sergio Rostagno.

Ci sono dei momenti nei quali si avverte che la fedeltà della chiesa al suo Signore corre un pericolo eccezionalmente grave, perché si diffondono e rischiano di imporsi – non solo nella società civile di cui pure la chiesa fa parte, ma nella chiesa stessa – ideologie e comportamenti, o addirittura regolamenti e leggi, incompatibili con l’Evangelo di Gesù Cristo. Di fronte a tali sfide diverse chiese o unioni di chiese protestanti, dagli anni Trenta del secolo scorso, hanno invocato più volte lo “status confessionis” (letteralmente: “situazione” o anche “presa di posizione” confessionale), ma l’idea che la resistenza della chiesa possa e debba trovare la sua espressione più solenne e impegnativa nel confessare pubblicamente la propria fede evangelica, pronunciando dei “sì” e dei “no” chiaramente contestualizzati, è assai più antica. Secondo The Encyclopedia of Christianity (Brill and Eerdmans, 1999-2008) risalirebbe ai martiri del resto santo d’Israele” del II secolo a.e.v., contrari all’ellenizzazione imposta dai re seleucidi, e ai primi cristiani che rifiutavano di rendere culto all’imperatore romano. Inoltre, troverebbe conferma in Paolo che “condanna” Pietro perché si asteneva (ipocritamente) dalla comunione del pasto coi cristiani non ebrei (Gal. 2, 11-21).

Proprio a quel precedente biblico, insieme con la promessa/avvertimento di Gesù in Mt. 10, 32 e Lc.12, 8, si appellerà quindici secoli dopo Flacio Illirico contro Filippo Melantone (entrambi riformatori luterani) nella disputa sugli “adiàfora” (lett. “cose irrilevanti”), se cioè fosse lecito accettare la reintroduzione forzata, nei principati tedeschi protestanti appena riconquistati dal sacro romano imperatore Carlo V, di pratiche organizzative e liturgiche (non dottrinali) “papiste” – sostenendo che “niente è irrilevante quando la persecuzione esige la confessione della fede” (in casu confessionis et scandali) (Formula di concordia, 1577). Sulla base di questo stesso principio i cosiddetti veteroluterani prussiani si opporranno all’unificazione organizzativa e liturgica coi riformati imposta nell’Ottocento da re Federico Guglielmo III.

Su tutt’altro versante denominazionale e geografico, quaccheri, metodisti e presbiteriani del Nord America, verso la fine del Settecento, affermavano l’incompatibilità con la fede evangelica della tratta e del possesso di schiavi: «La schiavitù è contraria alle leggi di Dio, dell’uomo e della natura, e dannosa per la società. È contraria ai dettami della coscienza e della pura religione» (Conferenza metodista, Baltimora, 1780). Dietrich Bonhoeffer doveva conoscere bene entrambe le tradizioni – sia quella luterana tedesca, sia quella riformata anglosassone – quando invocò lo “status confessionis” contro il “paragrafo ariano” della nuova legislazione nazista, che mirava a segregare gli ebrei “etnici” perfino nella chiesa (La chiesa e la questione ebraica, 1933; cfr. Gal. 3, 26-28) e quando partecipò alla stesura della Dichiarazione teologica di Barmen (1934) contro la nazificazione della chiesa stessa da parte del “Salvatore” (Heil!) Adolf Hitler.

A entrambe le tradizioni, oltre che a Bonhoeffer e alla Chiesa confessante tedesca, si ispireranno sia la Federazione luterana mondiale (FLM, Dar es Salaam, 1977) sia l’Alleanza mondiale delle Chiese riformate (ARM, Ottawa, 1982) per le loro prese di posizione confessionali contro l’apartheid in Sudafrica, sospendendo dalle loro comunioni le chiese membro che giustificavano teologicamente il razzismo di quel regime; sia ancora la Chiesa riformata olandese e il Moderamen della Federazione evangelica riformata tedesca per i loro richiami allo “status confessionis” contro le armi atomiche (1982); nonché la stessa ARM (Debrecen, 1997) nell’avviare un “processus confessionis” contro l’ingiustizia economica e la distruzione ecologica che avrebbe portato, fra l’altro, alla Confessione di Accra (2004).

Sebbene oggi siano in pochi, almeno fra i teologi, a negare la legittimità e l’importanza storica di tali pronunciamenti confessionali, specie per quanto riguarda l’evangelicità della chiesa ovvero la pari dignità di tutti gli esseri umani, non manca chi ne denunci l’“inflazione” e ne segnali i rischi, sia per l’unità della chiesa stessa (non sempre, ma in diversi casi fra quelli elencati si arrivò a veri e propri scismi) sia per la libertà personale di singoli fratelli e sorelle (nel 2012, per esempio, lo “status confessionis” è stato invocato nel dibattito della Chiesa evangelica luterana di Sassonia sulla convivenza di coppie dello stesso sesso negli alloggi pastorali, e sono legioni quanti vorrebbero fare lo stesso contro l’aborto e l’eutanasia). Dovrebbero dunque restare riservati a violazioni o a minacce evidenti ed eccezionalmente gravi per l’“integrità dell’Evangelo” (in quanto afferma sia riguardo a Dio, sia riguardo all’umanità e all’universo creato) di fronte alle quali si dimostrino impedite o inefficaci tanto la “confessio continua” dell’annuncio pubblico dell’Evangelo, in parole e opere, quanto ogni forma di dialogo o confronto (cfr. ARM, Seul, 1989 e FLM, 1982).

Ciò detto: è oggi ammissibile confessarsi cristiani senza «resistere alle culture della discriminazione, dell’autoritarismo e del nazionalismo» che vanno imponendosi in gran parte del mondo e ai sistemi, alle politiche, alle leggi prodotte da quelle “culture”, spesso, come già troppe volte in passato, con la complicità delle chiese e con gravissime conseguenze per la vita di miliardi di esseri umani, per non dire dell’umanità intera? O non siamo invece in pieno “status confessionis”? Il documento di Bangkok risponde chiaramente “no” alla prima domanda e “sì” alla seconda. Il Sinodo 2019 delle chiese valdesi e metodiste, pur esprimendo piena condivisione con lo spirito di quel documento, chiama le chiese stesse ad approfondirne i temi – aggiungendone un altro: l’“accoglienza” di rifugiati e migranti – «in uno spirito di ascolto reciproco e di franchezza evangelica».