peste_del_1630_a_venezia_bozzetto_-_zanchi

C’era una volta alle valli la peste

In queste settimane in cui siamo stati travolti dai “bollettini di guerra” relativi a contagiati, morti, in quarantena e per fortuna anche in via di guarigione, fa impressione leggere, nelle pagine degli storici valdesi, da Pietro Gilles a Giorgio Tourn, altre cifre tremende: 1500 valdesi morti in val San Martino (l’attuale val Germanasca) e 100 cattolici, 2000 valdesi in val Perosa, 150 a Roccapiatta. In val Pellice circa 6000 di cui 800 a Torre, che ebbe 150 famiglie completamente estinte, 100 cattolici tra cui alcuni monaci…

Sono le cifre dell’ultima epidemia che sconvolse l’Europa, quella del 1630, famosa perché è la peste di cui parla Manzoni nei Promessi Sposi: in Europa il contagio fu diffuso dagli eserciti con i loro continui spostamenti, a partire dall’autunno del 1629, a Briançon, per poi passare in val di Susa e in val Chisone. A Pinerolo apparve il 14 aprile, a San Germano e Prali negli stessi giorni. Ma la peste esplose improvvisa e violenta il 14 luglio con la morte di 10 persone. Domenica 21 luglio i riformati della val Pellice cominciarono ad abbandonare i templi e a far le loro pratiche di culto in aperta campagna. Intanto i frutti della terra andavano persi, i mulini erano per lo più infetti, coloro ai quali le comunità avevano chiesto di occuparsi dei contagiati morivano uno dopo l’altro, a cominciare da medici e farmacisti, altri richiedevano cifre eccessive per farsi applicare le sanguisughe…

In agosto i valdesi furono privati di ben sette dei loro pastori: all’inizio del mese si erano ritrovati sulle alture di Angrogna per provvedere alle sistemazioni più urgenti, con soli 3 pastori e 25 delegati: il Gilles fu incaricato di chiedere soccorso a Ginevra e nel Delfinato, Antonio Léger fu richiamato da Costantinopoli. Ma soprattutto si confida nell’aiuto di Dio: «La sua misericordia ha conservato in ogni valle un pastore… vediamo la Parola di Dio predicata nella sua purezza e ascoltata, i Sacramenti sono amministrati secondo il modo istituito da Cristo, non dobbiamo dubitare che quivi esista la Chiesa».

Nell’autunno il contagio si placò e in dicembre arrivò il primo pastore, Brunet, a coadiuvare Gilles, Gros e Barthèlemy. 

Si vide allora la tragedia di tutte le famiglie, dove la peste aveva rapito un figlio, la moglie, il marito. Ma nei mesi successivi ci fu anche la gioia di ricostruire famiglie e così si «celebrarono in poco tempo dei matrimoni in un numero tale che fu una cosa meravigliosa e mai vista o udita».

Assai importanti furono le conseguenze sul piano pastorale e culturale. I nuovi pastori arrivati dall’estero non ebbero modo e tempo per inserirsi nelle tradizioni vigenti alle Valli e modellarono un po’ le chiese sullo schema ginevrino, il solo che conoscevano. Scompaiono così i tratti più patriarcali, i ministri non sono più chiamati barba ma monsieur, il moderatore assume maggior prestigio.

Il mutamento più rilevante fu nella lingua: il francese diventò la lingua del culto perché i nuovi arrivati conoscevano solo quella, mentre i valdesi, dovendo comunicare con i piemontesi, erano bilingui. Il francese fu la lingua ufficiale delle chiese valdesi e così rimase fino alla seconda metà del XIX secolo. Usare il francese significa anche rimarcare il carattere europeo del mondo valdese e un legame più stretto con il protestantesimo internazionale, ma accresce il suo isolamento rispetto al Piemonte.

 

Foto: Antonio Zanchi, la Peste del 1630