size0

Afghanistan, basta una firma?

Sabato 29 febbraio la capitale del Qatar, Doha, ha ospitato la firma di un accordo che potrebbe essere storico, quello tra Stati Uniti e talebani per per ritirare le truppe americane dall’Afghanistan. L’intesa prevede che i soldati di Washington tornino a casa entro 14 mesi, chiudendo un impegno bellico cominciato alla fine del 2001, sull’onda dell’attentato alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre dello stesso anno.

Se gli impegni presi dalle due parti dovessero venire rispettati, tutte le forze militari statunitensi potrebbero quindi lasciare l’Afghanistan entro la primavera del 2021, anche se secondo The Guardian gli Stati Uniti intendono mantenere sul posto gli agenti dell’intelligence che combattono contro il gruppo Stato islamico e al-Qaida. A proposito del gruppo jihadista che fu guidato da Osama bin Laden, i talebani hanno concordato di interrompere ogni legame e di sedersi al tavolo negoziale con gli altri soggetti della politica afghani, incluso il governo di Ashraf Ghani, da sempre considerato un fantoccio degli Stati Uniti.

Tuttavia, è lecito chiedersi se una guerra durata quasi due decenni, costata oltre 2.000 miliardi di dollari solo da parte americana e che ha causato la morte di 180.000 vite umane, possa essere cancellata con una firma. La risposta, naturalmente, è negativa. «È prematuro parlare di pace», racconta Marco Puntin, coordinatore dei progetti medici in Afghanistan per Emergency. Tuttavia, la scorsa settimana ha portato con sé una discontinuità importante, ovvero un periodo di riduzione delle violenze concordato per dimostrare che le forze in campo sarebbero state in grado di mantenere il controllo del territorio. «È vero che la settimana scorsa abbiamo visto una riduzione effettiva della violenza – prosegue Puntin – ma comunque ci sono stati due attentati importanti a Kabul. Tuttavia, i Talebani hanno negato di essere stati gli autori».

L’accordo promette anche di lavorare su uno scambio di prigionieri in vista dei colloqui afgani che dovrebbero iniziare il 10 marzo, con il rilascio di 5.000 prigionieri talebani in cambio della liberazione di 1.000 soldati governativi. Tuttavia, il governo di Kabul, escluso dai negoziati e in evidente crisi di legittimazione, non ha per il momento approvato questa risoluzione, ritenendo che sia troppo rischioso rilasciare così tanti combattenti nemici su un campo di battaglia attivo.

L’Afghanistan vive in stato di guerra da oltre 40 anni, dall’invasione sovietica del 1979 ad oggi infatti il Paese non è mai stato completamente in pace. Con la maggioranza della popolazione sotto i 30 anni, spiega Marco Puntin, «c’è chi ha visto guerra e solo guerra. Proprio per questo gli afghani sperano molto nella pace». Dalla nostra prospettiva, in effetti, il Paese è sempre e solo associato a immagini di conflitto, e ancora di più all’uso intensivo di mine antipersona e di bombe a grappolo. Un problema che, naturalmente, non si esaurisce con una firma. «Emergency è presente lì dal 1999, con tre ospedali, da Kabul a Lashkar-Gah fino ad Anabah», ricorda Puntin. «Le tipologie di feriti che riceviamo sono vittime di proiettili, ordigni esplosivi e mine antiuomo. Le mine sono ancora presenti e fanno dei danni molto ingenti. Oltretutto, Il 70% della popolazione afghana vive in zone rurali, quindi difficoltà nell’accesso alle cure, e le conseguenze di un’amputazione sono molto più gravi e pesano poi sulle famiglie». Anche dopo un’eventuale pace vera e propria, le organizzazioni umanitarie avranno moltissimo lavoro da fare, perché il sistema sanitario, così come quello educativo, sono da ricostruire dalle basi.

Ma esiste una concreta possibilità che questa firma si traduca in qualcosa di concreto? Prima di tutto, molto dipende dai negoziati interni all’Afghanistan, un Paese bloccato anche dalla disputa tra il presidente Ghani e il suo rivale, Abdullah Abdullah, su chi abbia vinto le elezioni dello scorso anno. Intorno all’Afghanistan oggi c’è un misto di cinismo ed entusiasmo. Da un lato la speranza che le violenze sistematiche possano davvero terminare, dall’altra una domanda: a che cosa sono serviti vent’anni di guerra?

Molto cauto anche Marco Puntin: «il primo passo – chiarisce – è stato fatto, ora ci sarà una settimana di transizione e vedremo cosa accadrà 10 marzo, quando si apriranno i negoziati». La strada per l’Afghanistan è ancora lunga e accidentata.