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Iran al voto nel segno della sfiducia

Si sono aperte questa mattina le elezioni per il rinnovo del Majlis, l’assemblea legislativa della Repubblica Islamica dell’Iran. Sono 58 milioni i cittadini chiamati al voto in un Paese storicamente molto interessato alla politica, ma in cui oggi sembra mancare l’entusiasmo. Le ragioni sono molte: dal grande passo indietro degli Stati Uniti sul JCPOA, l’accordo sul nucleare, e il conseguente ritorno delle sanzioni, al sempre più marcato isolamento rispetto ai Paesi occidentali, dall’inflazione alla disoccupazione, fino all’uccisione di Qassem Soleimani, ucciso in un attacco statunitense a inizio gennaio. Tutto questo porta a una situazione di generale sfiducia frustrazione. Secondo Nicola Pedde, direttore dell’Institute for Global Studies, «la frustrazione per il fallimento del JCPOA ha avuto un forte impatto sulla società iraniana, che si è riverberato sulla politica con questo incremento dell’attivismo delle formazioni più ostili alla formazione di governo e al presidente Rouhani». Inoltre, come spesso è accaduto in passato, il processo di selezione e squalifica dei candidati da parte del Consiglio dei Guardiani è stato molto duro, con l’eliminazione di molti candidati che erano ritenuti dall’ala più conservatrice del sistema politico espressione dell’attuale linea di governo, quindi espressione di una visione pragmatica, oggi incarnata nel presidente Hassan Rohani.

Sono stati questi i temi della campagna elettorale?

«Il campo dei conservatori, che è molto variegato e molto eterogeneo, si è preparato a queste elezioni sfruttando fortemente questi grandi temi. Dall’altra parte c’è questo forte dibattito in corso in Iran sul fatto di non piegare la testa nei confronti degli Stati Uniti, e quindi dover adottare una postura politica più aggressiva, che viene ritenuta, nell’ambito del fronte conservatore, l’unica garanzia nei confronti dello strapotere degli occidentali. È stata quindi una campagna elettorale sostanzialmente dominata dai grandi temi della politica estera e soprattutto dal rapporto con gli Stati Uniti, ma che ha chiaramente sfruttato l’onda lunga di queste polemiche e di queste tensioni per favorire un processo di transizione sul piano politico, che di fatto segna il definitivo consolidamento della seconda generazione del potere iraniano».

Cosa significa parlare di “conservatori” in un sistema come quello iraniano?

«È un campo molto vasto ed è quello in cui si muovono la gran parte di questi dibattiti parlamentari. Qui si ritrovano posizioni ideologiche, economiche e di politica estera molto diverse tra loro, e soprattutto ci sono delle forti differenze tra le componenti più radicali di prima e di seconda generazione, dove nella prima generazione abbiamo probabilmente delle posizioni più forti, più consolidate su un piano ideologico in termini di conservatorismo, mentre nell’ambito della seconda generazione quello che noi occidentali chiamiamo radicalismo si esprime maggiormente in termini di politiche economiche e di difesa».

In moltissimi Paesi del cosiddetto Medio Oriente allargato è emersa con forza negli ultimi anni la questione generazionale. L’Iran è immune a questo discorso?

«Assolutamente no. Anzi, l’Iran è forse il Paese dove questa transizione generazionale è più evidente tanto dal punto di vista politico quanto nel dibattito sociale. Tre generazioni sostanzialmente popolano la società iraniana: una, la prima, assolutamente minoritaria, è quella detta “dei rivoluzionari”, cioè quelli che hanno fatto la rivoluzione e creato la Repubblica Islamica dell’Iran. Ha un’espressione essenzialmente clericale ma ormai è ridotta drasticamente del numero per ragioni d’età: ormai sono invecchiati al punto da non essere più attivi in politica o proprio non più presenti fisicamente. È una generazione che peraltro non ha saputo creare una linea di continuità all’interno dell’area clericale. E infatti, la seconda generazione del potere iraniano, anziché provenire da quell’ambiente clericale che aveva partecipato alla rivoluzione, proviene dai ranghi delle formazioni militari che hanno combattuto la guerra con l’Iraq, soprattutto quelle dei pasdaran. Anche questa seconda generazione ormai non è più numericamente significativa: diciamo che le prime due generazioni combinate tra loro rappresentano poco più del 20 per cento del totale. Questa seconda generazione ha posizioni molto diverse rispetto alla prima, soprattutto in termini di politica economica e di politica estera e di difesa, ed è quella che oggi rappresenta l’ossatura principale del sistema amministrativo-economico del Paese, ma anche politica. È quella che si sta affacciando come attuale generazione del potere politico a ogni livello del sistema, statale e locale».

Cosa dire invece della terza?

«La terza generazione è enorme, raggruppa tra il 75 e l’80 per cento degli iraniani, ossia quelli al di sotto dei 35 anni di età. Non hanno nulla in comune sotto il profilo ideologico e di appartenenza né con la prima, perché non hanno fatto la rivoluzione e anzi molti di loro non erano nemmeno nati all’epoca della rivoluzione, né con la seconda, non avendo partecipato al conflitto. Quindi sta rigenerando modelli ideologici e di appartenenza squisitamente propri che non hanno nulla a che vedere né con l’atto rivoluzionario né con il sentimento di appartenenza alle forze armate. Rappresentano il grosso degli elettori iraniani, il grosso della società iraniana ed è interessante vedere come questa componente della società stia evolvendo, stia cercando di definire dei modelli propri, delle linee politiche proprie che però ancora non esprime sul piano della presenza politica in Parlamento. Di fatto non abbiamo ancora politici di terza generazione all’interno delle istituzioni. E questo quindi è parte di questo interessante ed importante processo di mutamento del sistema generazionale italiano».

Il sistema politico iraniano presenta grandi elementi di debolezza, soprattutto agli occhi degli occidentali, e per questo è importante essere osservatori critici di quel modello. Tuttavia, è anche opportuno chiedersi se la strategia dell’isolamento sia vincente. A chi giova oggi?

«Giova ad alcuni paesi della comunità internazionale che hanno identificato l’Iran nel nemico ideale, nella rappresentazione del male e quindi trasformandolo in una sorta di minaccia esistenziale per la sicurezza delle relazioni internazionali. C’è da dire che contribuisce fortemente ad alimentare questa percezione del nemico epocale, del nemico esistenziale, anche una certa parte della componente stessa politica iraniana, che ha tutto l’interesse a mantenere l’isolamento, ha tutto l’interesse a mantenere forte questo profilo dello scontro perché attraverso l’isolamento e attraverso la capacità di mantenere forte questo senso di conflittualità con la comunità internazionale riesce a gestire i propri interessi, soprattutto economici, all’interno del Paese. E questa combinazione combacia molto spesso nel mantenere in una situazione di equilibrio, in una sorta di limbo, un Paese con potenzialità enormi sul piano della ripresa delle relazioni economiche e politiche con la comunità internazionale. Un engagement dell’Iran sul piano politico prima di tutto ed economico in subordine sarebbe assolutamente necessario soprattutto in questa fase dell’evoluzione politica del Medio Oriente. L’insieme di queste combinazioni di interessi invece impedisce sistematicamente una normalizzazione dei rapporti».

Rapporti che l’Italia ha da molto tempo con Teheran. Come si comporta il nostro Paese in questa fase?

«L’Italia ha sempre avuto, nei confronti della Regione, una posizione di pragmatismo, che ha tracciato una politica piuttosto saggia nella gestione dei rapporti con l’Iran. Siamo sempre stati in grado di essere un interlocutore, anche critico a volte, ma leale ed affidabile, e gli iraniani ci riconoscono questa qualità. Siamo sempre stati molto onesti e franchi nella comunicazione e questo è stato percepito molto positivamente in Iran. Da questo punto di vista siamo sicuramente il partner europeo ritenuto più affidabile e culturalmente più vicino e politicamente più razionale. Credo che l’Italia possa con orgoglio dire che la nostra politica estera nei confronti dell’Iran e della regione in particolar modo sia stata costruita e gestita in modo positivo e totalmente in linea con quello che è l’interesse nazionale italiano».