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Dio, onore, patria: all’estero si scandalizzano, in Italia no

Sorprendentemente poco è stato riportato dai media italiani, e ancor meno da quelli ungheresi della conferenza sul conservatorismo globale “Dio, onore, patria: il presidente Ronald Reagan, papa Giovanni Paolo II e la libertà delle nazioni”, tenutasi a Roma il 3 e 4 febbraio.

 Questo silenzio è particolarmente strano perché il governo magiaro aveva annunciato almeno una settimana prima che il Primo Ministro di Budapest Viktor Orbán avrebbe partecipato alla conferenza. Intendiamoci, all’epoca la data era degna di nota solo perché coincideva con quella dell’incontro del Partito popolare europeo a Bruxelles, dove si prevedeva che il destino di Fidesz nel Partito popolare europeo sarebbe stato deciso.

Eppure nella conversazione di un’ora di Orbán sul palco con Christopher DeMuth del tink tank conservatore Hudson Institute, uno degli organizzatori della conferenza, il premier ha ammesso di avere praticamente mano libera quando si tratta di prendere decisioni e che i media ungheresi non sono così sbilanciati, a favore della sinistra, come in Occidente. E’ seguita la confessione di aver programmato l’avvio di una controrivoluzione conservatrice. Fortunatamente per l’Europa, ha ammesso la sua delusione per il fatto che solo pochi si sono uniti a lui nella lotta per riscrivere la storia del vecchio continente.

Il leader ungherese ha usato frasi ad effetto: «C’è un modo di dire nella nostra politica: la nazione non può essere in opposizione. Ciò significa che la nazione è al di sopra della struttura del partito. Anche se qualcuno è in opposizione, deve comunque servire la nazione … In Ungheria l’amore per la nazione è obbligatorio perché cosa può esserci di più importante del fatto che siamo nati ungheresi?».

In altri paesi, come il Regno Unito, la conferenza ha creato invece un bel tumulto politico. Gli organizzatori della conferenza hanno arruolato 22 uomini e donne per tenere lezioni a un vasto pubblico. Daniel Kawczynski, deputato conservatore britannico, era uno di questi. I suoi genitori fuggirono dalla Polonia e si stabilirono nel Regno Unito quando aveva sei anni. Non appena la notizia della sua partecipazione è finita sui media britannici, sono state sollevate gravi obiezioni sulla sua presenza a causa della tendenza politica generale della conferenza.

Lady Margaret Hodge, la nuova presidente del Movimento operaio ebraico, ha invitato Boris Johnson a impedire ai suoi compagni di partito di partecipare a una conferenza che «ha promosso le opinioni razziste». Andrew Gwynne del partito Laburista, ha dichiarato che «è vergognoso che solo giorni pochi dopo il Memorial Day dell’Olocausto (27 gennaio) Daniel Kawczynski abbia partecipato a un incontro con antisemiti, islamofobi e omofobi».

Il giornale The Guardian ha elencato i ben noti partecipanti di estrema destra, citando Giorgia Meloni, Rachele Mussolini e Marion Maréchal Le Pen, lo stesso Viktor Orbán descritto come un soggetto che «promuove teorie della cospirazione, di solito con sfumature antisemite, sull’influenza di George Soros, il filantropo miliardario, in Ungheria e in tutta Europa. Ha anche attinto a un’altra teoria della cospirazione di estrema destra, quella della “grande sostituzione” razziale».

Dopo alcuni giorni, i conservatori britannici sono stati costretti ad agire. Marie van der Zyl, presidente dei deputati ebrei britannici, ha dichiarato che «se il partito conservatore non riesce a sanzionare il signor Kawczynski, corre il serio rischio che il pubblico presuma che le sue opinioni siano condivide all’interno del partito». L’Indipendent, altro quotidiano britannico, ha definito Orbán un «estremista» e la conferenza «ripugnante».

Kawczynski «è stato formalmente avvertito che la sua partecipazione a questo evento non era accettabile, in particolare alla luce delle opinioni di alcuni dei presenti, che condanniamo totalmente», ha dichiarato il portavoce del Partito conservatore, assicurando che «Daniel ha accettato le rimostranze e si è scusato».

Le organizzazioni ebraiche non erano le sole ad essere sul piede di guerra. Nemmeno i leader cattolici erano esattamente entusiasti, secondo il National Catholic Reporter (NCR), che descriveva l’evento come una «conferenza che mescolava attacchi contro il presunto “progressismo egemonico” delle istituzioni mondiali ad altri rivolti a papa Francesco per la “sua” visione della Chiesa cattolica». NCR ha menzionato specificamente la presenza di Viktor Orbán, «le cui riforme antidemocratiche lo hanno portato a essere definito il sovrano più autocratico d’Europa». L’articolo si è poi concentrato su noti oratori cattolici tra i partecipanti, ad esempio sullo statunitense Rod Dreher, autore de “L’opzione Benedetto”. O Roberto Mattei, storico italiano e cattolico tradizionalista, che ha affermato che Francesco aveva «rinunciato a essere un leader spirituale» per concentrarsi maggiormente su questioni politiche e sociali.

Diversi eminenti accademici cattolici hanno criticato la riunione. Ad esempio, Stephen Schneck, docente di scienze politiche presso la Catholic University of America, ha affermato che l’ideologia che è stato proposta alla conferenza «contraddice direttamente» gli insegnamenti sociali della chiesa. «Che si tratti di promuovere la purezza razziale ed etnica, l’odio nei confronti dei migranti o la demagogia degli uomini forti, questa è una politica assolutamente opposta a ciò che la chiesa ci chiama: essere cristiani».

Secondo NCR, a molti giornalisti è stato negato l’accredito, ufficialmente per mancanza di spazi, ma alla fine la sala conferenza in cui si è svolto l’incontro era piena solo per un terzo, forse perché la “star” dell’evento, Matteo Salvini, all’ultimo minuto ha annullato la partecipazione. Gli organizzatori inizialmente hanno indicato che Callista Gingrich, ambasciatrice degli Stati Uniti presso la Santa Sede, avrebbe partecipato insieme a suo marito, l’ ex presidente della Camera degli Stati Uniti dal 1995 al 1999 Newt Gingrich, ma il portavoce dell’ambasciata ha comunicato a NCR che i due «non hanno mai accettato» di prendere parte all’evento e di aver anzi chiesto che i loro nomi fossero rimossi dal programma.

Insomma, in nazioni con una solida tradizione democratica quale è il Regno Unito, la partecipazione di un rappresentante delle istituzioni ad un incontro in compagnia di figure che non esitano a propagandare idee razziste non viene liquidata facilmente, ma diventa un caso tale da obbligare il principale partito del paese a scusarsi. 

Non viene trattata dai giornali come una notizia di semplice cronaca o peggio di “colore”, ma porta a un’ondata di indignazione che rinnova il ruolo del giornalismo quale cane da guardia, e non servo, della democrazia. Una definizione non a caso di origine anglosassone. 

Che poi fra i protagonisti dell’incontro romano vi siano state (presenti o assenti dell’ultimo minuto) figure di riferimento del governo italiano in carica fino allo scorso agosto fa sì che per i media stranieri l’equazione Italia=Ungheria autoritaria e razzista di oggi appaia molto meno campata in aria di come possa sembrare alle nostre latitudini.