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Una nuova storia di repressione dall’Egitto

Arrestato senza apparenti motivi all’aeroporto del Cairo, trattenuto per 27 ore senza che se ne sapesse niente, interrogato, torturato e infine incriminato. Questa è la storia di Patrick George Zaki, una vicenda che nel fine settimana, ha richiamato l’attenzione sul sistema di sparizioni forzate e di costanti violazioni dei diritti umani, civili e politici della popolazione egiziana da parte del regime di Abdel Fattah al-Sisi, anche perché ha immediatamente riportato alla mente quanto accaduto quattro anni fa al ricercatore friulano Giulio Regeni.

Zaki, che ha 27 anni, è di nazionalità egiziana e dallo scorso agosto sta studiando per un dottorato all’Università di Bologna, si occupa da anni di diritti umani e in particolare di diritti di genere, collaborando con l’Eipr, l’Egyptian Initiative for Personal Rights, che per prima ha denunciato la sua sparizione.

Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, afferma che quanto accaduto «è tipico della sparizione, così frequente in Egitto. In questo caso quel momento lunghissimo di sparizione dovrebbe essere coinciso con l’arrivo di Zaki all’aeroporto del Cairo proveniente dall’Italia. È evidente che in quell’aeroporto c’è un luogo nel quale le persone vengono trattenute senza contatti con il mondo esterno». Sabato mattina infine è ricomparso, non più all’aeroporto della capitale ma davanti alla procura di Mansoura, la sua città natale, per un nuovo interrogatorio. Secondo le autorità egiziane, su di lui pendeva un mandato d’arresto in Egitto dallo scorso settembre, ma lui non ne sapeva niente.

Del caso di Zaki si sono rapidamente occupate organizzazioni internazionali, attivisti e politici egiziani e italiani. Di fronte a un’attenzione che questa volta si è sollevata molto in fretta, la risposta egiziana è stata molto dura e per nulla collaborativa, riducendo questo atto a una questione interna. L’Egitto, spiega Noury, ha detto «una cosa lapalissiana, cioè che Zaki non è un cittadino italiano», ma ha taciuto sul fatto di essere di fronte a uno studente del Master di Bologna. «Ma la cosa più preoccupante è stata quando le autorità egiziane hanno detto che era ricercato dalla polizia, che è la sorte che accompagna la vita di migliaia e migliaia di attiviste e attivisti, giornalisti, difensori dei diritti umani, avvocati. È una risposta un po’ truce e anche molto preoccupante». Preoccupanti sono anche le accuse nei suoi confronti, emerse poco per volta: George Zaki è infatti accusato di aver pubblicato notizie false con l’intento di disturbare la pace sociale, di aver incitato proteste contro l’autorità pubblica, di aver sostenuto il rovesciamento dello stato egiziano, di aver usato i social network per minare l’ordine sociale e la sicurezza pubblica, e di aver istigato alla violenza e al terrorismo. «Sono attività – aggiunge Noury – del tutto lecite secondo il diritto internazionale. La sua pagina Facebook era oggetto delle attenzioni investigative perché conteneva dei post critici verso Al Sisi. Insomma, Zaki ha una storia come tanti altri di attivismo per i diritti umani in particolare per i diritti delle minoranze. Lui è di religione copta, quindi appartiene a sua volta a una minoranza in sé discriminata».

Anche se Zaki è cittadino egiziano, l’attenzione italiana si è immediatamente sollevata. In qualche modo, sembra che dalla storia di Giulio Regeni si sia imparato qualcosa, ovvero che vicende come queste non sono una questione di nazionalità. «Abbiamo di fronte a noi da quattro anni l’esempio meraviglioso di una famiglia, quella di Giulio Regeni, che si sta dedicando a un’idea che è giustissima: globalizzare la preoccupazione, e dunque non sono gli italiani che si occupano degli italiani o gli egiziani degli egiziani, ma sono cittadine e cittadini che hanno una coscienza ad occuparsi di vittime di violazioni dei diritti umani nel mondo».

Casi simili a quello di Patrick George Zaki, così come quello di Giulio Regeni a suo tempo, non sono affatto isolati. Diverse centinaia di egiziani scompaiono infatti per periodi di tempo variabili e vengono torturati dall’Agenzia Nazionale di Sicurezza nell’ambito delle operazioni di repressione, solitamente definite come “difesa della sicurezza nazionale”. Secondo diversi rapporti pubblicati da Amnesty International negli scorsi anni, a partire dall’inizio del 2015 centinaia di cittadini sono scomparsi per un minimo di 48 ore, e in alcuni casi per mesi, prima che si sapesse che erano stati arrestati. Dal colpo di Stato che portò al potere Abdel Fattah al-Sisi nel 2013, ogni giorno si verificano sparizioni forzate, diventate ormai sistema e principale strumento di deterrenza del dissenso.