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Profezia, conoscerla e riconoscerla nel nostro tempo

«Per abbracciare le possibilità di domani dobbiamo rifiutare i perenni profeti di sventura e le loro predizioni», secondo Donald Trump. Al Forum economico mondiale di Davos il presidente degli Stati Uniti ha annunciato l’impegno della sua amministrazione sulla questione ambientale e in particolare sul programma di rimboschimento che prevede un miliardo di alberi piantati in tutto il pianeta.

Colpisce che ancora una volta la profezia venga caricaturata. Da una parte viene dileggiata come fastidiosa presunzione di prevedere il (nero) futuro. Dall’altra, ma in altri contesti, viene esaltata acriticamente quale oracolo infallibile dell’inevitabile catastrofe. Nel primo caso è vissuta negativamente come voce disturbante da qualsiasi grande manovratore che presenta la sua soluzione al problema illudendo se stesso e gli altri di essere perfettamente padrone della situazione; nel secondo è coltivata narcisisticamente e custodita come una buona bottiglia, fino al giorno in cui si potrà dire: “Ecco, io l’avevo sempre detto che sarebbe andata a finire male”, con una sterile soddisfazione da nonno brontolone.

La profezia non è previsione del futuro. È proclamazione della parola di Dio.

La parola dei profeti («Così parla il Signore») è parola di giudizio sul peccato personale e sociale. Sull’assassinio di Uria da parte del re Davide, a esempio, o sul culto offerto a Dio in una situazione di sfacciata ingiustizia sociale. È la parola di Dio predicata.

Nelle pagine dell’Antico Testamento il giudizio dei profeti riguarda essenzialmente la lontananza del popolo dalla legge, lontananza che causa scollamento sociale, divisioni interne, alleanze compromissorie in politica estera, contaminazione con l’idolatria. Su questa triste la profezia annuncia una morte e una rinascita, sbaragliando la concorrenza dei falsi profeti che avevano parte al peccato del popolo, che proclamavano la pace del Signore a coloro che odiavano la profezia e l’impunità a quelli che rifiutavano di convertirsi, che parlavano soltanto di un Dio “da vicino” – cioè essenzialmente una divinità vincolata al popolo quasi fosse un santo patrono, oppure uno spirito che comunicava attraverso i sogni. Secondo il capitolo 23 del libro di Geremia (da leggere e rileggere!), il giudizio di Dio su questa distorsione della sua parola è di inappellabile condanna.

La profezia, la parola di Dio predicata che condanna senza appello l’ingiustizia, la schiavitù e la disobbedienza, che annuncia la soluzione di una morte catartica di tutto questo sistema di cose e di una rinascita su fondamenti rinnovati e migliori (come era stata seppur parzialmente l’esperienza della deportazione in Babilonia, del ritorno e della ricostruzione) viene concentrata dal grande Profeta di Dio all’inizio della sua predicazione pubblica nelle parole: «Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino» (Matteo 4, 17).

Gesù Cristo, Profeta e profezia, proclamatore e contenuto, promessa e compimento della Parola, evidenzia ancora di più lo stridore tra il mondo e il Regno, tra i vecchi tentativi di autogiustificazione della disobbedienza degli umani e la nuova parola della giustificazione mediante l’obbedienza di Cristo. La riconciliazione tra Dio e l’umanità disobbediente costata la tortura, lo scherno e l’esibizione della morte del Figlio eterno di Dio e nostro fratello, non riguarda il futuro, ma l’eternità. Non riguarda la rassicurazione, ma la conversione dell’umanità. Il giudizio di Dio sul mondo – e dunque anche sulla politica ecologica di Trump – non sarà una sventura, ma un atto di giustizia e di glorificazione di Dio che possiamo attendere a testa alta (Catechismo di Heidelberg, domanda 52).

I luoghi umani di profezia che sono le chiese non devono cercare di accomodare lo stridore della Parola a contatto con il mondo, ma devono lasciarsi dirigere. Melville, in Moby Dick, così commenta il pulpito della chiesa di Nantucket, ricavato dalla prua di una nave: «Come trovare qualcosa più pieno di significato? Perché il pulpito è la parte prodiera della terra, tutto il resto vien dietro, il pulpito guida il mondo. E’ di lì che si avvista l’uragano dell’ira fulminea di Dio, e la prua deve resistere al primo urto. È di lì che si invoca il Dio delle brezze amiche o avverse, perché mandi venti favorevoli. Sicuro, il mondo è una nave al suo viaggio di andata, non un viaggio completo. E il pulpito è la prua». Ma se la vedetta di prua guarda indietro anziché avanti, fuor di metafora se la parola della predicazione si deforma in un chiacchiericcio connivente con il mondo e le sue potenze, magnanimo e rassicurante, allora diventa un’altra cosa. La luce diventa nebbia.