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Quello che abbiamo in testa

Nel romanzo-pamphlet Quello che abbiamo in testa (Mondadori, Milano 2019, p.249, €17) l’autrice Sumaya Abdel Qader affronta il vero tabù universale, quello di cui non si parla veramente, di cui pare sia vietato interessarsi. Il tabù non è il velo islamico né la condizione della donna nel mondo islamico o della musulmana in un contesto culturalmente cristiano. Non si tratta di un qualcosa di innominabile relativo a una religione o all’incontro-scontro interreligioso.

Il vero tabù è cosa abbiano in testa le donne, accompagnato necessariamente dall’altro argomento indiscutibile: la violenza maschile contro le donne. Sì, si parla di violenza contro le donne, di molestie, di stalking, di femminicidio, ma se ne discute veramente al di là della cronaca? La società è interessata ad approfondire le ragioni dietro questa terrificante struttura di peccato? Probabilmente no: indizi ne troviamo nel linguaggio. Ad esempio, quanti giornali nei giorni scorsi hanno titolato “Eletto il primo presidente donna della Consulta” e quanti “Eletta la prima donna presidente della Consulta”? Sfumature apocalittiche, rivelative di quel che hanno in testa molte persone, soprattutto uomini.

Tornando al romanzo, Abdel Qader narra le vicende di Horra, musulmana italiana di Milano, figlia di immigrati mediorientali, sposata con un uomo di origini simili, madre di due figlie. Horra non è, però, una mera alter ego dell’autrice, ma è probabilmente il prodotto delle esperienze sue e delle persone che conosce. Vicende ed espressioni, che emergano dalle chiacchiere tra amiche, dagli incontri ostili con avventori sull’autobus o con bigotti in moschea, da Facebook e dai media, dalle persone più rispettose e dialoganti: tutto questo è accaduto ed è stato rielaborato nel romanzo.

Proprio questo rende il libro interessante. È un libro senza tabù. Pur essendo anche pamphlet, pur difendendo la propria esperienza di Islam (e, di conseguenza, la fede e cultura islamica tout court), Abdel Qader nomina le contraddizioni, le denuncia, le condanna.

La protagonista Horra (che si raccomanda di pronunciare la “h”: «Fai finta di scatarrare») cerca di essere fedele alla vocazione che le deriva dal nome: Horra significa Libera. Per questo vive l’Islam come una chiamata a libertà, come sottomissione solamente a Dio per essere veramente libera tra gli uomini e le donne con cui si relaziona. È così? È possibile? Esiste un Islam libero, che chiama a libertà? Esiste perché esiste in Horra, che non sembra essersi inventata niente di nuovo, se non quello che fa ognuno e ognuna di noi quando cerca di “inventarsi” come vivere in un mondo che è già difficile di suo, figurarsi per chi appartiene a una minoranza.

Qui c’è un legame evidente con l’autrice, che prende il nome da Sumayyah bint Khabbat, prima martire dell’Islam, uccisa perché si rifiutava di rinnegare la fede. Quale maggiore libertà c’è nel morire per le proprie idee e la propria fede?

Un lettore protestante vede nelle vicende di Horra molte analogie con le proprie, come ad esempio il peso di doversi giustificare di essere diverso, il fardello di dover conoscere a fondo la propria cultura e quella degli altri, anche meglio degli altri, perché chi appartiene alla maggioranza non è costretto a spiegare né a spiegarsi nulla.

Ma alla fine cosa ha in testa questa donna? Per citare un altro milanese, Alessandro Manzoni, ha in testa un “guazzabuglio”. Pensieri, pensieri, pensieri, ragionamenti, impressioni, pregiudizi positivi e negativi. Prima di agire o di analizzare un fatto, Horra pensa tanto, forse troppo: se dico o faccio questo, cosa penseranno gli altri? Ma il pensiero non ha senso se non seguito dall’azione. In questo è la libertà di Horra: pensare e agire, essere pronta a pagarne le conseguenze. E non è detto che Dio non abbia in serbo delle conseguenze positive per chi è fedele alla sua chiamata a libertà.