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Dalla Libia al Sahel e ritorno

Gli ultimi mesi hanno riportato al centro dell’attenzione il conflitto in corso in Libia, con varie fasi differenti, dal 2011, una guerra che sin dal suo inizio ha attirato l’interesse di Paesi stranieri, che hanno avviato una transizione politica diventata presto incontrollabile. L’esistenza di questo conflitto è chiara ed evidente a tutti, mentre lo sono molto di meno le sue conseguenze sul territorio che vi sta a sud, il Sahel, la sponda meridionale del deserto del Sahara (al-Sāhil in arabo significa proprio “costa”, “sponda”).

Se si guarda una mappa dell’Africa e si cercano Mali, Niger e Burkina Faso, è chiara sin da subito la loro centralità, sospesi tra Mediterraneo e Golfo di Guinea, tra il mondo arabo e la cosiddetta “Françafrique”, ma questo da solo non basta a comprendere le ragioni di conflitti, necessariamente declinati al plurale, in corso da anni. Nello specifico, l’attenzione maggiore è concentrata sul Mali, come raccontano Andrea De Georgio, giornalista freelance che ha vissuto in Mali dal 2012, ricercatore associato dell’ISPI su terrorismo nel Sahel e Islam nell’Africa occidentale, e Luca Iotti, presidente dell’ong Bambini nel Deserto, attiva in Sahel dal 2000 con progetti di cooperazione. «I conflitti – spiega De Georgio – sono stratificati. Nel marzo del 2012, in Mali c’è stato un colpo di Stato militare che ha causato un cambio di regime, quindi un momento di relativa debolezza da parte dello Stato centrale che è stato sfruttato dai gruppi jihadisti del nord del Mali, che erano già impiantati nel deserto del Sahara nella parte settentrionale del Paese, ma che hanno approfittato di quel vuoto di potere centrale per occupare per nove mesi le grandi città del nord, Timbuctu, Gao e Kidal».

Quello è stato il momento più evidente, ma le ragioni sono molteplici, come in tutti i conflitti contemporanei. In questo caso quali vanno individuati?

Andrea De Georgio:«Questa è una zona che, a guardarla sulla cartina geografica, sembrerebbe solo un grande ammasso di sabbia e di rocce. In realtà non sono solo sabbie, ma ci sono ingenti ricchezze nel sottosuolo: si parla di uranio nel caso del Niger, nel nord del Mali e nel nord del Burkina Faso. Uranio, oro, metalli preziosi, gas naturali, pensate che in Mali è stato da poco scoperto nel centro del paese quello che potenzialmente potrebbe essere il più grande giacimento di gas naturale puro al mondo».

Si guarda spesso a questa zona come alla nuova frontiera del jihadismo globale. È davvero così? Come si è arrivati a questo punto?

Andrea De Georgio: «I gruppi jihadisti di oggi sono diventati jihadisti con il tempo, ma in realtà nascono come signori della guerra e come trafficanti, soprattutto narcotrafficanti di sostanze stupefacenti come la cocaina e gli oppioidi che vengono dal centro-sud America e dall’Asia e che transitano dall’inizio degli anni 2000 in queste zone per poi dirigersi verso il mercato europeo. Oltre a ciò si occupano di traffico di esseri umani, di armi, di sigarette, di auto e macchinari, di benzina, oppure di rapimenti di cittadini occidentali rilasciati poi attraverso il pagamento di riscatti. Tutti beni che hanno fatto ottenere a questi gruppi di stampo che possiamo definire mafioso delle ingenti possibilità economiche. È una situazione molto stratificata in cui le frontiere sono grandi spazi difficilmente controllabili, migliaia e migliaia di chilometri di frontiera tra Mali Burkina Faso e Niger. Oggi il centro si sta trasformando nel fronte caldo del jihadismo contemporaneo perché questi gruppi si rifanno soprattutto ad Al Qaida nel Maghreb islamico, la branca qaedista del Sahel, e sempre di più negli ultimi mesi stiamo osservando l’arrivo di finanziamenti, armi e combattenti dello Stato Islamico, che si sta ritirando almeno da marzo dell’anno scorso dal teatro siriano-iracheno e sta concentrando le proprie forze e la propria minaccia sul Sahel, che vuole trasformare in futuro il nuovo califfato».

A proposito della presenza di combattenti, anche mercenari, c’è da ricollegare questo conflitto alla Libia. Che cosa c’entra il conflitto sul Mediterraneo con quello che accade nel Sahel?

Andrea De Georgio: «Quello che succede in Libia ha sempre avuto delle grosse ripercussioni sul Sahel. Bisogna ricordare le parole suo malgrado profetiche del colonnello Gheddafi, che prima di essere ucciso disse come monito all’Europa che se fosse stato ucciso il Sahel sarebbe bruciato e una massa di profughi, di migranti, avrebbe invaso l’Europa. Ovviamente questa profezia trova le sue ragioni d’essere nel fatto che prima di prima di essere eliminato da parte dei francesi, degli americani e dell’intervento della Nato, Gheddafi aveva degli enormi interessi in tutta la regione, si presentava un po’ come il padrino, il padre-padrone del panafricanismo e delle popolazioni nomadi, soprattutto tuareg. Soprattutto quelli originari del nord del Mali, del Niger e del Burkina Faso avevano trovato negli anni accoglienza e formazione militare nella Libia di Gheddafi, che li teneva come milizie personali».

Ecco, che cos’è successo nel momento in cui quel regime è venuto meno?

Andrea De Georgio: Nel momento in cui il suo regime è caduto, questi combattenti sono rientrati nei propri paesi. Se in Niger le istituzioni sono riuscite a trattare riuscendo a ottenere da parte dei gruppi tuareg il fatto che lasciassero le armi che stavano portando via dal famoso arsenale scomparso di Gheddafi, tantissime munizioni, armi automatiche e armi da guerra, circa 30.000 razzi terra-aria, nel Nord del Mali non è stato lo stesso. E quelle armi e quei giovani tuareg politicizzati alla corte di Gheddafi sono stati quelli che hanno utilizzato queste armi per ricominciare la loro lotta indipendentista, portata avanti dal gruppo MLNA, il Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad, la regione transfrontaliera tra il nord del Mali e altri paesi del Sahel per cui i Tuareg rivendicano l’indipendenza. Così facendo hanno alzato il livello del conflitto e si sono alleati in un primo tempo con i gruppi jihadisti che venivano da fuori, soprattutto dall’Algeria, ma hanno aperto la strada per l’occupazione di Timbuctù, di Gao e di Kidal a gruppi appunto narco-jihadisti che a tempo debito, dopo pochi mesi li hanno sbattuti fuori, hanno rotto questo tipo di alleanza con i tuareg e si sono impiantati con altri interessi rispetto all’indipendenza Tuareg ma molto più vicini al jihadismo.

Insomma, tutto quello che succede in Libia ha delle ripercussioni dirette su tutta la regione saheliana, per la vicinanza geografica, politica e storica. Il sud della Libia confina con il nord del Niger e ha un grande confine con l’Algeria, che è un altro attore regionale molto importante. E quindi sia a livello geopolitico, ma anche a livello culturale troviamo le stesse popolazioni seminomadi che fanno traffici transfrontalieri di esseri umani e di tutti i beni leciti e illeciti che abbiamo citato prima tra la Libia, il Niger, il Burkina Faso e il Mali. Insomma, sono le stesse rotte e gli stessi signori della guerra che si arricchiscono. Quando scoppia una guerra a Seba nel sud, o scoppia un conflitto tra i Tuareg e i Tebu del sud della Libia, ovviamente questo ha ripercussioni su tutto il commercio e sulla politica regionale».

C’è un tema che spesso viene sottovalutato come ragione di conflitto, ovvero il cambiamento climatico. In che modo incide qui?

Luca Iotti: «È plateale il rapporto tra cambiamenti climatici e migrazioni, che avvengono prima di tutto all’interno del continente africano, contrariamente a quello che probabilmente molti credono. I cambiamenti climatici sono una delle ragioni alla base degli spostamenti della maggior parte di chi emigra, perché la necessità ambientale diventa presto anche economica. Basta pensare che noi, che lavoriamo in Africa da una ventina d’anni, ci ritroviamo a scavare sempre più a fondo per arrivare a una falda che garantisca l’acqua tutto l’anno. Perciò i cambiamenti climatici incidono sulle migrazioni, incidono sui conflitti e incidono su tutta una serie di fattori che poi determinano quelle migrazioni interne che trovano sbocco in campi a volte riconosciuti e attrezzati, a volte non attrezzati in cui si riversano popolazioni vittime di un conflitto che nasce meramente per interessi economici del Nord del mondo, del Medio Oriente e da situazioni politiche».

In un recente viaggio, Luca Iotti si è trovato alla periferia di Bamako, non lontano dall’aeroporto della capitale, in un luogo chiamato Faladiè. Di che cosa si tratta?

Luca Iotti: «Faladiè è un campo profughi informale. Non è un vero e proprio campo profughi, è una discarica cittadina in cui vengono regolarmente riversati i rifiuti e che in passato era uno dei punti in cui i nomadi Peul, in arabo conosciuti come Fulani, andavano a vendere i loro animali. È un luogo che quindi era già conosciuto dai Peul, che una scappati dalla zona di Bandiagara, Mopti, Douentza, nel nordest del Mali, si sono riversati da circa un anno sempre più in questa grande discarica, una discarica privata dove pagano l’affitto per piantare la loro misera tenda e pagano un affitto che va da 1 euro e cinquanta a 2 euro a piazzola al mese. Qui non vi è alcun servizio perché il campo non è riconosciuto, non c’è nessuno che interviene al momento a parte Bambini nel Deserto, al punto che, grazie a un finanziamento di emergenza umanitaria ottenuto dall’otto per mille della Tavola valdese, recentemente abbiamo installato una piccola infermeria che è già attiva da lunedì 20 gennaio, sono stati approntati anche dei lavori di ristrutturazione e una piccola scuola che ospita 100-120 bambini degli 800 che si trovano attualmente a Faladiè».

Nel Sahel di oggi appare impossibile pensare a progetti che non siano emergenziali. È vero anche in contesti più circoscritti, come Faladiè?

Luca Iotti: «In quel contesto è assolutamente impossibile pensare a un progetto di cooperazione. La cooperazione è un percorso che prevede una condizione di sicurezza per i locali e per gli operatori da cui si sviluppano delle attività che possono essere appunto progetti di carattere agroalimentare, progetti di istruzione e formazione. In questo caso non si può parlare di questo perché l’emergenza è quella di ridare la possibilità a queste persone di costruirsi una vita. Questo non può avvenire nella discarica, dove purtroppo ci sono già stati dei decessi a causa appunto delle condizioni di vita. Tra l’altro, io sono stato nel periodo migliore, a breve comincerà a soffiare l’Harmattan, il vento che proviene dal Sahara e successivamente sarà la stagione delle piogge. Un’enorme discarica in cui prima soffia il vento e poi piove, in cui non ci sono servizi igienici in cui l’acqua arriva tramite bidoni acquistati da rivenditori, va verso un disastro ulteriore rispetto all’attuale».

Che tipo di intervento, oltre a quello che è già stato fatto, è necessario portare avanti, anche pensando un po’ oltre l’emergenza?

Luca Iotti: «Il servizio d’emergenza sta dando buoni risultati: da quando sono presenti dei medici in questo modestissimo posto di primo soccorso si sono ridotti tantissimo i casi di ospedalizzazione, riuscendo a trattare buona parte dei casi sul posto. Completata questa fase, l’obiettivo che tutte le persone coinvolte si dovrebbero dare è quello di individuare un posto lontano dalla discarica dove cominciare ad accogliere e ospitare dei gruppi familiari partendo dai più vulnerabili, quelli con più bambini e aiutarli appunto a ricollocarsi in una zona diversa dall’attuale e prevedibilmente anche diversa da quella di provenienza, perché in quella zona si intrecciano così tanti interessi, così tante situazioni per cui le prospettive sono molto complicate ancora per parecchi anni a venire».

Allargando nuovamente il campo, che cosa si può immaginare a livello regionale per il futuro?

Andrea De Georgio: «È veramente difficile poter fare delle previsioni, ancora di più sul piano umanitario. Prendiamo il Niger: è il paese al mondo con il più alto livello di aiuti umanitari in questo momento perché sta beneficiando di tantissimi fondi, soprattutto dell’Unione Europea, perché vedono il Niger come un Paese strategico per cercare di bloccare i flussi migratori verso il Mediterraneo centrale. Nella politica europea scellerata dell’esternalizzazione delle frontiere, che sta creando ancora più morti e ancora più problemi anche alle stesse popolazioni locali, a volte si spaccia per sviluppo o per aiuto umanitario quello che invece purtroppo sottende ad altri interessi che sono politici e ancora una volta economici. Però il discorso sullo sviluppo non può essere slegato da una discussione politica sulla qualità dei dirigenti locali, perché gli interessi sono neocoloniali da parte francese, da parte dell’Unione europea, da parte della Cina, da parte della Russia, da parte della Turchia, del Sudafrica, dell’India, del Brasile, ci sono tantissimi attori economici che vedono proprio nella crescita, nel boom demografico e anche economico di questa regione delle enormi potenzialità. Dobbiamo ricordare che Paesi come Burkina Faso, Mali e Niger sono tra i più poveri al mondo secondo l’Indice di Sviluppo Umano delle Nazioni Unite, ma questo tiene conto di pochi indicatori, mentre se si va a vedere il Pil di questi paesi vediamo che cresce di 4, 5, 6 o anche 10 punti percentuali su base annua. Questo però significa anche maggiori diseguaglianze economiche, una forbice tra l’élite economica che fa affari con l’Occidente, con l’élite occidentale che si sta arricchendo in maniera esponenziale e la massa di persone, di reietti, di diseredati. Quello che sta succedendo oggi in Africa occidentale però è anche un grande movimento dal basso, partecipativo, di reazione all’oscurantismo portato dal jihadismo e di opposizione anche a una classe dirigente sempre più corrotta e sempre più affaristica, in affari con le grandi multinazionali e con i Paesi occidentali per depredare queste terre che sarebbero ricchissime. Dovremmo cominciare a parlare, più che di Paesi poveri, di Paesi impoveriti».

Una via d’uscita politica esiste, ma deve essere endogena. Non ci si può aspettare che arrivi una soluzione da un qualche governo benefattore dall’esterno. E allora bisogna lavorare sul terreno. Quali strumenti mettere quindi in campo per lavorare dal basso?

Luca Iotti: «Lavorare dal basso, ormai è assodato anche se non scontato, è la base fondamentale. Garantire alle persone di vivere degnamente e decorosamente nel loro paese è il primo passo per fermare tante cose, come l’immigrazione irregolare, e favorire lo sviluppo del Paese. Bambini nel deserto è impegnata in tutti questi Paesi proprio con progetti di formazione per offrire una strategia alternativa alla migrazione. Certo è che, come sottolineò quasi dieci anni fa Dambisa Moyo nel suo libro La carità che uccide, finché i fondi arriveranno dall’alto verso l’alto e non transitando dall’alto del Nord del mondo verso il basso, allora non avremo soluzioni. Servono organizzazioni impegnate seriamente e concretamente a lavorare nel Sahel e da queste a una distribuzione di questi fondi alla base, nei villaggi dove si installano i pozzi, nelle cittadine dove bisogna creare scuole con sistemi educativi migliori, nelle periferie dove si possono creare tante opportunità di lavoro. In Africa non manca il lavoro, manca in parte la professionalità e noi italiani, l’Italia, può avere una grande occasione. Gli africani nei paesi in cui lavoriamo vogliono lavorare con noi e noi dovremo essere uno strumento per lo sviluppo, non solo per l’Africa, ma potremmo diventare anche portatori di competenze, di prodotti italiani persino, perché il mercato africano è un mercato importante. Tutti lo hanno capito, moltissimi ci lavorano già da anni. E quale modo migliore quello di arrivare in un Paese, in una regione portando le capacità e le competenze dell’Italia? Non mi viene in mente un modo migliore per fare realmente un lavoro serio e concreto “a casa loro” come si suol spesso dire».

Foto: Max De Martino per Bambini nel Deserto