180259516-73819957-6b88-4478-a6f2-300c168f70f5

La scuola è un luogo di incontro delle diversità

Cittadinanza e scuola: che cosa fa emergere l’episodio dell’Istituto comprensivo romano di via Trionfale? Il fatto in sé [il testo della presentazione on line relativo alla formazione delle classi, poi modificato, rendeva noto che la composizione delle classi stesse, in un plesso o in un altro, rifletteva le posizioni sociali degli alunni iscritti, ndr] contiene elementi di coerenza con le norme vigenti – le scuole infatti devono analizzare il proprio bacino d’utenza, lo spiega bene Chiara Saraceno su La Repubblica del 16 gennaio –; le scuole sono tenute a conoscere le condizioni socio-economiche delle famiglie dei loro iscritti, il contesto culturale nel quale allieve e allievi crescono e tutti i dati che, al di là delle esigenze statistiche, sono all’origine del dialogo e della collaborazione tra gli istituti scolastici e i genitori o gli adulti di riferimento.

Il patto formativo parte da qui, dall’avvio di un processo di conoscenza reciproca e perciò caratterizzato sul versante istituzionale dalla disponibilità ad accogliere, rispettare e mettere al centro della vita scolastica studentesse e studenti. I dati raccolti su di loro, sulle loro famiglie devono servire ad attuare, con accortezza, il dettato costituzionale che impone di rimuovere gli ostacoli economici e sociali alla libertà e all’uguaglianza dei cittadini, poiché ne impediscono lo sviluppo personale e la partecipazione alla vita sociale, (Cfr. Costituzione della Repubblica Italiana, art. 3).

L’Istituto comprensivo romano ha commesso un errore di insensibilità nel comunicare ai genitori alcuni dati acquisiti sul proprio bacino di iscritti, in modo tale che la presumibile “fotografia” di una realtà è risultata interpretabile come una volontà di dare indicazioni, orientare gli utenti a fare l’iscrizione più adeguata alla propria condizione socio-economica. Si è trattato forse di una gaffe, ma se non fosse stata immediatamente rivista e corretta, avrebbe potuto giocare in modo stigmatizzante in quel delicato cammino che porta i bambini e le bambine a riconoscersi e a riconoscere gli altri, a notare le differenze e a constatare gli aspetti comuni dell’esperienza, a collocarsi in un orizzonte sociale più ampio, differenziato e complesso di quello famigliare.

Il modo in cui ci si comprende e ci si racconta agli altri, il modo in cui si comprendono gli altri e si ascolta la loro storia costituisce l’identità relazionale e processuale di ognuno di noi. Una scuola come luogo d’incontro di persone di diverse provenienze, che ne sappia trarre intelligenza sociale, linguistica, antropologica e così via, è una scuola capace di rendere dialettici i percorsi di sviluppo personale e di formazione del cittadino, di aprire questi processi su prospettive di cambiamento. Dove ciò non accade si fanno concreti alcuni rischi, tra i quali quello di non riuscire a fornire, agli allievi e alle famiglie, che una presa d’atto dello svantaggio socio-culturale, il quale a sua volta può diventare un’etichetta. D’altra parte, solo per fare un esempio, l’omogeneità di un gruppo-classe di livello cognitivo alto non mette capo necessariamente a un insegnamento/apprendimento vivace e interessante, perché possono prevalere dinamiche competitive sugli altri momenti della vita scolastica. 

 A questo punto sorgono le questioni che superano di gran lunga la portata di correttezza politica, per dir così, dell’episodio accaduto presso l’Istituto comprensivo romano, ma che vi si riflettono significativamente. Si tratta sì di questioni inerenti alle politiche scolastiche, ma che implicano una visione non strettamente settoriale, dato che chiamano in causa la separazione dei quartieri-ghetto dal resto della città, o i profondi cambiamenti del mercato del lavoro e l’aumento delle disuguaglianze sociali. A quali condizioni la nostra scuola può ancora contribuire alla mobilità sociale, può essere ancora fattore di ascesa sociale?