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Il 2020 di Gaza, sopravvivere anziché vivere

Gli anni Venti sono cominciati senza grandi aspettative per il processo di pace tra Israele e Palestina, luoghi di un conflitto che dura da oltre 70 anni e che ha vissuto fasi estremamente diverse. Tuttavia, alcune tendenze di oggi erano già state previste diversi anni fa.

Nel 2012, infatti, l’agenzia per i rifugiati palestinesi delle Nazioni Unite, Unrwa, aveva pubblicato insieme a Unicef un rapporto dedicato a Gaza nel quale si proponeva uno scenario secondo cui la striscia affacciata sul Mediterraneo sarebbe diventata “inabitabile” nel 2020. Secondo lo studio, dal titolo Gaza in 2020: un luogo abitabile? la popolazione sarebbe cresciuta dagli 1,6 milioni ai 2,1 milioni, un dato che oggi non è troppo facile da accertare a causa dell’isolamento della regione. Inoltre, nelle previsioni di allora, arrivate subito dopo l’operazione Returning Echo condotta dall’esercito israeliano, si pensava che le infrastrutture elettriche, idriche e sanitarie non sarebbero state in grado di reggere alla crescita demografica.

Nel frattempo, la guerra del 2014, chiamata da Israele Protective Edge, ha ulteriormente complicato la situazione, portando gli stessi funzionari delle Nazioni Unite a spostare le proprie previsioni al 2018. Tuttavia, è opportuno chiedersi oggi quanto quelle ipotesi siano state corrette. Quel che è certo è che la vita a Gaza oggi è nettamente peggiore di quanto fosse otto anni fa, con una disoccupazione cresciuta dal 29% al 45% e un tasso tra i giovani palestinesi superiore al 60%. Come previsto dal rapporto, oggi la corrente elettrica è instabile, anche perché a fronte di una crescita demografica in linea con quanto scritto nel 2012, la produzione è rimasta ferma, mentre dal 2018 le linee elettriche egiziane, che rifornivano la striscia, hanno smesso di funzionare. L’acqua proveniente dagli acquedotti, inoltre, è quasi del tutto non potabile, portando da un lato a una spesa insostenibile per l’acquisto dell’acqua, dall’altro alla diffusione di malattie causate dal bere acqua contaminata.

Gaza vive una situazione di isolamento politico sin dal 2007, quando Hamas prese il controllo della Striscia cacciando il partito rivale, Fatah. Quindi è tutta colpa del movimento nazionalista palestinese? Sarebbe troppo semplice arrivare a questa conclusione: Gaza era già stata gradualmente isolata nei decenni precedenti, per poi essere sottoposta a una stretta ancora maggiore dopo l’evento traumatico di tredici anni fa.

Oggi la strategia di isolamento e pressione condotta da Israele contro un nemico considerato terrorista sembra non essere più universalmente accettata a Tel Aviv, perché la situazione umanitaria insostenibile alimenta un risentimento sempre più difficile da tenere sotto controllo. Nel 2016, il rapporto di Unrwa e Unicef venne addirittura citato dall’intelligence israeliana, che di fronte ai membri del parlamento suggerì di sostenere la crescita economica di Gaza per evitare di “sperimentare il contraccolpo” di un territorio in cui è impossibile vivere. Tuttavia, quelle raccomandazioni sono rimaste in gran parte lettera morta, a volte addirittura tradotte sul terreno in politiche, anche militari, di segno opposto.

Va detto che alcuni cambiamenti ci sono stati, anche se modesti. Dal piccolo ampliamento della zona di pesca fino alla timida apertura all’importazione ed esportazione di merci dalla Striscia, di tanto in tanto sono stati offerti ai gazawi degli spazi di respiro, soprattutto economico. Tuttavia, il deterioramento di Gaza è continuato senza particolari rallentamenti, e uno dei problemi è che numerosi attori regionali, non soltanto Israele, considerano questi strumenti come sufficienti per garantire la stabilità della zona. In linea con questa politica, l’Egitto ha riaperto parzialmente il valico di Rafah, che collega la Striscia al Sinai, che era rimasto chiuso tra il 2013 e il 2018. Allo stesso modo, altri donatori, soprattutto Stati del Golfo, hanno investito in produzione elettrica o nelle politiche a sostegno dell’Unrwa e di altre organizzazioni internazionali e locali, colmando il vuoto lasciato dai tagli ai finanziamenti provenienti dagli Stati Uniti.

L’impressione, tuttavia, è che tutte queste iniziative non siano altro che un tentativo di evitare un crollo totale della situazione, anche se è difficile considerare la Striscia del 2020 un luogo in cui un crollo non sia già avvenuto. L’insicurezza alimentare è ormai strutturale e, anche se la demografia sembrerebbe suggerire il contrario, sono moltissimi i giovani gazawi che lasciano il loro territorio per cercare lavoro o protezione all’estero. In questa prospettiva, gli sforzi da parte della comunità internazionale, così come i cambiamenti politici da parte di Israele, sembrano essere solo strumenti per permettere alle persone di sopravvivere, ma senza dare prospettive di vera vita.

Come ricorda Tania Hari su +972 Magazine, «gli esseri umani non sono macchine e molti degli indicatori che rendono la vita degna di essere vissuta non possono essere trovati in un rapporto delle Nazioni Unite». All’interno del rapporto del 2012, infatti, non si tenevano in conto i valori non misurabili, come la soddisfazione, la libertà, la sicurezza o la capacità di costruire prospettive per sé e per le generazioni successive. Da questo punto di vista, le cosiddette “Marce del Ritorno” al confine fra Gaza ed Israele, in corso dal marzo 2018 per reclamare la rimozione del blocco alla Striscia, sono state un segnale importante. Oggi hanno forse esaurito il proprio effetto, ma hanno messo in luce la frustrazione e la stanchezza di una popolazione senza orizzonti. Non solo spazio, cibo e acqua, dunque, ma almeno dignità e speranza.