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Le chiese, agenzia di prestazioni sociali?

L’articolo pubblicato ai primi dell’anno sul quotidiano zurighese Tages-Anzeiger dal giornalista Andreas Tobler ha rinfocolato l’acceso dibattito sulla questione delle imposte ecclesiastiche.

Secondo il sistema svizzero, il cittadino è tenuto a versare una percentuale delle proprie tasse, secondo quote prestabilite, a seconda della comunità religiosa a cui dichiara di appartenere

(un sistema simile a quello tedesco, ne avevamo parlato qui; il paradosso degli ultimi anni in Svizzera, soprattutto nella parte tedesca, è che, a fronte di una forte diminuzione di membri “dichiaranti” si è riscontrato un aumento del gettito, dovuto alla forte contribuzione di una generazione ad alto reddito, come avevamo scritto qui).

Il giornalista si è espresso contro questa tassa, ritenendo di voler uscire dalla chiesa di appartenenza, alla quale ammette di non essere per niente legato, essendo passati diversi anni dall’ultima frequentazione, in occasione di un funerale e di un matrimonio, e addirittura (si legge nell’articolo pubblicato da Réformés) dice di «non trovare alcune forza né sostegno nel credere in un Dio».

Al di là delle opinioni e della fede personale, il nucleo della questione è piuttosto il ruolo sociale attribuito alle chiese dallo stesso giornalista, che riconosce in loro (oltre a una serie di valori morali e culturali da cui la società è fortemente influenzata, ma che secondo lui al giorno d’oggi sono «ampiamente indipendenti dalle istituzioni ecclesiastiche»), un «progetto sociale che merita di essere sostenuto». Le chiese hanno quindi una funzione come agenzie di servizi sociali, e come tali è giusto che le Stato le sostenga. Oltre alle imposte ecclesiastiche, puntualizza il giornalista, le Chiese cantonali ricevono «sostanziosi contributi dallo Stato» per occuparsi delle persone anziane, senzatetto o dei rifugiati. Il fatto è che questi ultimi, secondo Tobler sono ampiamente sufficienti a coprire le «prestazioni sociali fornite dalle chiese» e non sarebbero quindi necessarie ulteriori contribuzioni dei cittadini.

Le risposte da parte delle Chiese cattolica e riformata (principali beneficiarie della tassa) non si sono fatte attendere e sulle pagine dello stesso Tages-Anzeiger, l’11 gennaio, il presidente della Chiesa riformata Michel Müller e la presidente del Consiglio sinodale cattolico zurighese, Franziska Driessen-Reding hanno diffuso una lettera aperta, ripresa anche sui siti Internet delle rispettive denominazioni, spiegando perché è una «grossolana assurdità» affermare che il contributo dello Stato alle chiese compensi i costi del loro impegno sociale.

Gli estensori del messaggio hanno richiamato uno studio universitario condotto dal politologo (loro concittadino) Thomas Widmer, il quale sostiene che «le Chiese forniscono servizi di importanza sociale globale in misura molto maggiore rispetto ai contributi ricevuti dallo Stato».

I dati dicono che il cantone versa 50 milioni di franchi all’anno (circa 46.500.000 euro) per le azioni sociali, educative e culturali delle chiese, a fronte di 440 milioni (dato del 2018) pagati come imposta ecclesiastica dai fedeli e dalle imprese.

Senza contare, sottolineano i responsabili delle due chiese, l’enorme mole di lavoro svolta a livello volontario, che secondo lo studio di cui sopra, ammonta a circa 1,9 milioni di ore ogni anno, l’equivalente di 870 posti di lavoro a tempo pieno, un’enormità: «Sono i membri di chiesa, e non solo lo Stato, a rendere possibile il lavoro delle chiese a favore della società», dichiarano con forza, aggiungendo che senza l’imposta ecclesiastica, combinata al lavoro volontario nelle chiese, gran parte delle attività, dalla tutela degli edifici storici, all’integrazione delle persone migranti, al dialogo interreligioso, alle attività con i giovani, semplicemente non sarebbero possibili.

Fatte le debite modifiche rispetto al contesto nazionale, merita riflettere anche in Italia sul ruolo sociale delle chiese e sopratutto ritornare sulla dinamica, a molti non chiara, tra contribuzioni dei membri di chiesa e contributi derivanti dallo Stato. Da noi non è prevista l’imposta ecclesiastica come in Svizzera, ma c’è il sistema dell”otto per mille” per cui il contribuente decide liberamente se devolvere una piccola percentuale delle proprie imposte a una delle varie comunità religiose previste, oppure allo Stato (e se non lo decide, la sua quota viene comunque distribuita secondo percentuali stabilite agli enti aventi diritto). Non è una tassa in più, a differenza di quanto accade oltralpe o in Germania (motivo per cui un numero crescente di persone si dichiara non appartenente ad alcuna chiesa), e nel caso di chiese come quelle battiste, metodiste e valdesi, i soldi derivanti dalle quote dell’otto per mille non vengono utilizzati per mantenere la struttura ecclesiastica (pastori, edifici di culto…) ma per interventi sociali, culturali ed educativi, in Italia e all’estero, molto spesso condotti da associazioni o organizzazioni che nulla hanno a che vedere con le chiese protestanti. Ecco perché, in Italia, le contribuzioni dei membri di chiesa sono fondamentali, ed ecco perché pensare che il contributo dato con l’otto per mille sia sufficiente è (per riprendere l’espressione delle chiese zurighesi) una «grossolana assurdità».