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Manifestare per la memoria?

«Viviamo in un periodo in cui spesso si manifesta in piazza: ma perché non si vedono mai manifestazioni “per la salvaguardia della memoria?”». A chiederlo qualche giorno fa è stato un opinionista televisivo che commentava così le “dimenticanze storiche” e riteneva invece importante ripercorrere fatti come piazza Fontana o Auschwitz, “fondanti” del nostro presente. Manifestare per la memoria significa impegnarsi pubblicamente per capire la nostra cultura, che altro non è, per dirla con il linguista e semiologo Jurij M. Lotman, se non «la registrazione di quanto è già̀ stato vissuto dalla collettività̀ ma che non è ereditario». Ed è proprio questa non-ereditarietà che rende importante “riscoprire” la memoria.

Qualche settimana fa ero a Parigi per un intervento a un workshop organizzato dal Consiglio d’Europa e dall’Università Descartes di Parigi. Sul tappeto la definizione della Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul patrimonio culturale, secondo la quale quest’ultimo è «un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano (…) come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione», e comprende tutti gli aspetti dell’ambiente «che sono il risultato dell’integrazione fra le popolazioni e i luoghi». Un qualcosa in cui un ruolo importante hanno il diritto di tutti alla cultura e l’individuazione di strategie democratiche di “costruzione” del patrimonio comune.

Uno dei temi dell’incontro parigino era «il guardare al turismo, per lo sviluppo locale, attraverso la valorizzazione delle differenze». Centrali i concetti di ospitalità, con il turismo inteso non come un privilegio di una minoranza di ricchi, e il territorio considerato come un qualcosa in cui le relazioni tra persone generano rappresentazioni di sé e degli altri. L’accoglienza diventa così strumento per valorizzare la popolazione, anche attraverso il dialogo fra le differenze interne a essa.

La parte pratica prevedeva di andare in un quartiere di banlieue (a Courneuve) e scoprire come “Mygrantour” (una rete europea di passeggiate urbane interculturali, in cui sono coinvolte diverse città italiane) prepara le sue visite guidate. La domanda era: come possiamo fare qualcosa di comune mettendo in relazione la nostra diversità? Courneuve ci è venuta incontro. Rashid, la nostra guida, ha condiviso con noi la storia del Comune alle porte di Parigi che, da agricolo quale era nel XIX secolo, è diventato industriale e poi luogo di accoglienza dei francesi di rientro dall’Algeria a fine Anni ‘50. Un percorso che è poi continuato con “Il quartiere dei 4000”, che si è modificato e che si presenta oggi ancora diverso. Uno spazio di incontro in cui vivono cristiani, islamici, ebrei, ognuno con il proprio luogo di culto, e dove un dialogo è tentato.

Con Rashid, altre “guide” ci hanno raccontato il quartiere: una suora cattolica, un gruppo di anziani abitanti di Courneuve, un gruppo di studenti. La visita era focalizzata sul patrimonio materiale, il quartiere pensato dagli architetti (un tempo enormi palazzoni – oggi nuove case che pian piano sostituiscono i “vecchi” edifici); ma il clou è stato il pensiero e la memoria delle persone che incontravano noi e che si incontravano fra loro; che dialogavano e confrontavano le differenze; che ripercorrevano la memoria e la raccontavano partendo dal loro presente.

Ma perché raccontare questa storia su Riforma? Perché manifestare per la memoria significa farlo per sé e per la collettività. Significa fare un salto nel “diritto alla cultura”, nel conoscere e prendere coscienza; nell’impegnarsi perché vi sia un qualche meccanismo democratico per far sì che la memoria, la libertà di pensare e di manifestare il proprio credo siano di tutti e tutti le possano praticare senza dimenticanze e senza pregiudizi.

Come protestanti da tempo siamo attenti alle diversità, all’essere minoranza. La messa in comune della memoria è un processo non solo di ricostruzione culturale del senso di un dato evento, oggetto, documento, immagine; ma anche dell’attribuzione a loro di un valore. La questione è parlare con gli altri ed è creare coscienza attorno alla memoria. Servono momenti in cui usciamo all’esterno, o accogliamo, in cui si avvii un processo di “contrattazione comunicativa” per la costruzione della conoscenza collettiva attraverso le differenze e non si miri ad annientarle. Nel nostro caso, significa capire quale è il valore che diamo al nostro essere protestanti ma anche quello che gli altri danno al nostro esserlo. Significa mettersi in ascolto e parlare. Insomma “manifestiamo per la memoria” che è, per dirla con Paul Ricoeur, «il presente del passato», ed è da essa «che dipende l’orientamento dal passato verso il futuro».