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India, un continente da scoprire anche in campo artistico

Dopo le rassegne dedicate all’arte giapponese e africana, la città di Mendrisio prosegue nel suo percorso di proposte relative all’arte extraeuropea con una mostra relativa alla storia millenaria dell’arte indiana nelle sue diverse tradizioni: nell’ambito religioso induismo, buddismo, giainismo. Le opere sono 77, provenienti dal collezionismo svizzero, dal II secolo a.C. al XII secolo a.C. fino al XII,. e distribuite su una ventina di regioni del subcontinente indiano.

Il primitivismo delle avanguardie storiche mosse i primi passi dalle forti impressioni suscitate dalle sculture provenienti dall’Africa nera e dall’Oceania, sviluppandosi poi con possente carica innovativa fino alla rivoluzione cubista, influenzando anche altre forme d’arte dalla musica alla danza, al teatro alla letteratura: Hermann Hesse con il suo celeberrimo Siddharta a cui si affianca l’opera di Max Beckmann, interessato prevalentemente a letteratura, filosofia, mitologia dell’antica India senza riflessi significativi sull’arte figurativa.

Le prime collezioni di opere d’arte e di oggetti indiani iniziarono a formarsi all’inizio ‘800, trovando la sua migliore espressione nelle raccolte del British Museum, cui si affiancarono poco a poco altre collezioni private e pubbliche senza però che si generasse un vero e proprio movimento dedito alla cultura dell’0riente; la scultura indiana trovava apprezzamento per la vivacità esuberante che rappresentava un mondo misterioso e affascinante, di cui non si percepivano la complessità e la profondità. Solo intorno al 1910 si iniziò nel mondo anglosassone a prendere in considerazione il lato estetico dell’arte indiana, al di là del puro aspetto storicistico: «Gli Indù sono sicuramente il popolo più impressionante della terra» (Derain); e ancora: «È noto quanto le avanguardie del primo novecento fossero inclini ad attribuire un contenuto spirituale all’opera d’arte e quanto, di pari passo, il modernismo abbia riconsiderato e riletto tradizioni artistiche con una forte impronta religiosa, dal bizantino al gotico» (Cat. Mostra, p. 13).

Tutto ciò ha portato a superare decisamente i limiti formali e quelli storici con uno sguardo che si muove nel tempo e nello spazio geografico senza limiti di sorta. «Perciò quelli che ritennero il fuoco sostanza delle cose/ e che l’intero universo potesse consistere di fuoco,/ e quelli che stabilirono l’aria come principio al generarsi dei corpi/ e quanti credettero che la sola acqua di per sé/ formasse le cose, o che fosse la terra a creare tutto,/ potendo trasformarsi in tutte le nature degli esseri,/ appaiono grandemente allontanarsi e aberrare dal vero» (Lucrezio, La natura delle cose, I, 705-711). Prodotte nel mondo orientale, queste opere derivano da un contesto storico ben preciso di cui però ben poco si conosce: la vera differenza fra il divino indiano e quello cristiano è da rilevare nella stessa concezione del divino che potremmo così sintetizzare: per i cristiani si può rappresentare Gesù, che ha preso sembianze umane, ma molto meno il Dio creatore del cielo e della terra, mentre per gli indiani il dio può assumere sembianze umane, che possono essere descritte visivamente. Il Dio creatore compare raramente nei dipinti occidentali a causa del «trascendente che lo caratterizza» e che ne rende estremamente difficoltosa la rappresentazione; non così nel mondo orientale dove la “consacrazione” «trasforma l’opera d’arte, altrimenti priva di vita, in un ricettacolo adatto ad accogliere la divinità , che, durante il rituale, viene invitata al suo interno». Altre considerazioni si potrebbero fra sulle posture delle singole figure, sulla associazione a fiori o rami d’albero, sul maschile e femminile, per le quali si rimanda al bel catalogo ricco di fotografie e dotta prefazione: una rara occasione per gettare lo sguardo su un continente e una civiltà assai poco conosciuti nel mondo occidentale ma ricchi di una grande cultura e una profonda spiritualità. 

Mendrisio, Capolavori dal collezionismo svizzero, fino al 26 gennaio