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Piazza Fontana e l’impatto sulla Chiesa valdese

«La bomba del 12 dicembre fu un trauma per il Paese e in particolare per noi milanesi. Ricordiamo tutti cosa stavamo facendo e dove eravamo quel giorno che segnò una presa di coscienza collettiva dei tentativi in corso di tarpare le ali ai grandi movimenti di contestazione che in quegli anni si erano sviluppati».

Samuele Bernardini, già presidente del Concistoro della chiesa valdese di Milano e oggi responsabile delle libreria Claudiana in Italia, aveva 14 anni in quel dicembre del 1969, e già un ruolo attivo nei movimenti studenteschi e all’interno della chiesa valdese di via Francesco Sforza, a quattro passi proprio da piazza Fontana.

«I giovani nelle nostre chiese erano molti più di oggi e portatori di istanze e dialettiche nuove, dirompenti agli occhi della consistente parte più conservatrice della chiesa: l’impegno del credente nella società, il rapporto fra chiesa e politica erano questioni attorno alle quali le discussioni erano ferocissime fra chi continuava a credere in una netta separazione fra chiesa e stato e chi invece voleva vivere la propria fede immerso nel mondo, nelle sfide che questo portava alle nostre porte. La politica e la contestazione entravano nei templi e quella esplosione tragica inevitabilmente fece lo stesso». 

16.37 del 12 dicembre 1969, la bomba di Piazza Fontana a Milano squarcia vite e segna una linea netta di demarcazione fra ciò che c’è stato prima e il dopo. Nulla sarà più lo stesso nella nostra Repubblica; inoculato il tarlo del sospetto nei confronti delle istituzioni, immediatamente percepite come corresponsabili del disegno reazionario in corso, le conseguenze saranno spesso scelte di campo estreme, da una parte e dall’altra.

La tragedia non arriva inattesa; forse lo è nelle proporzioni, ma i presupposti, le anticipazioni c’erano state eccome durante tutto l’anno. Le bombe da “centomila lire”, il 25 aprile  alla fiera di Milano, e poi la sequela sui vari treni estivi, tutte con il loro corredo di feriti. Anche in questi casi le indagini puntano dritte verso l’area anarchica; anni dopo verranno giudicati colpevoli in via definitiva i neofascisti Franco Freda e Giovanni Ventura. Saranno loro a venir infine indicati quali responsabili della strage alla banca dell’agricoltura dalla Cassazione nel 2005, insieme ad altri complici e omertose coperture anche istituzionali, ma i due non sono più processabili in quanto assolti per insufficienza di prove nel 1987. 

La bomba di Milano non fu l’unica quel giorno: un’altra venne rinvenuta inesplosa sempre nella città meneghina e fatta brillare con sospetta rapidità dalle forze dell’ordine, distruggendo per sempre una prova fondamentale per scoprire inneschi e composizione, e da quelle tentare di seguire il filo che sarebbe giunto fino agli esecutori. Esplosero negli stessi minuti tre ordigni a Roma, all’Altare della Patria, alla Banca nazionale del lavoro e in Piazza Venezia, provocando 18 feriti, segnale inequivocabile di un disegno repressivo a larga scala. 

«Negli ambienti della sinistra extra parlamentare fu chiaro subito che non erano stati gli anarchici a commetter quella carneficina – prosegue Bernardini-. Fu una presa di coscienza collettiva del fatto che quando si parla di Stato non si indica qualcosa di netto, di monolitico; per la prima volta scoprivamo tutti, contestatori e “filogovernativi”, che esistevano pezzi di istituzioni che andavano per i fatti loro. Per i secondi fu un trauma: la perdita di credibilità dello Stato rappresenta una questione serissima poiché il patto sociale si fonda su un rapporto di fiducia; se una parte non assolve ai propri doveri allora il problema della mancanza di punti di riferimento chiari può portare a conseguenze drammatiche».

Pastore in via Sforza al tempo era Aldo Sbaffi, e lo sarà fino al 1972, anno dell’elezione a moderatore della Tavola valdese: «Ricordo benissimo che il pastore Sbaffi durante la predicazione domenicale esprimeva tutto il suo turbamento per l’escalation di tensione in corso, in particolare per l’abuso della violenza da parte delle forze dell’ordine contro gli studenti in occasione di manifestazioni e occupazioni ad esempio dell’università Statale. Era considerato da una parte dei membri di chiesa troppo aperto, di sinistra, troppo sensibile alle ragioni dei giovani e della contestazione, che da studentesca diventa nel mentre anche operaia, e la questione allora si fa più dura: si parla di salari, lavoro, tutto diventa più concreto».  

Il mondo entrava così nella vita delle donne e degli uomini di chiesa, e lo faceva anche attraverso le parole anche di una nuova generazione di pastori che a Milano passarono per l’anno di prova e portarono i loro studi in Facoltà alla discussione della chiesa: Sergio e Bruno Rostagno, Giorgio Tourn, «ma è in tutti quegli anni che era in corso un’evoluzione e lo si vede ad esempio in tutto il percorso pastorale di Alberto Ribet, dall’arrivo a Milano nel 1950 al momento dell’avvicendamento nel 1964».

Ma il mondo entrava nelle chiese anche attraverso la carta stampata, che all’epoca aveva peso e influenza rilevanti, e lo fa «attraverso pubblicazioni quali “Gioventù Evangelica” che nel 1967, nel 450° anniversario della Riforma di Lutero, sceglie invece di fare la copertina sui 50 anni dalla rivoluzione di ottobre, con conseguente scandalo e polemiche infinite, e con “Nuovi Tempi” del geniale rivoluzionario pastore Giorgio Girardet che nasce nel 1966 e fa il controcanto al giornale della chiesa valdese che allora era “La Luce”.

Sempre nel settore eidtoriale sempre più rilevante diveniva il ruolo della casa editrice Claudiana: «con l’arrivo alla direzione nel 1964 di Carlo Papini iniziarono le proposte editoriali differenti da quelle classiche cui erano tutte e tutti abituati: teologia nera, cattolicesimo del dissenso, la questione palestinese. Il piccolo mondo protestante italiano si apriva a quello che allora si chiamava “terzo mondo”, che irrompeva con una carica che preoccupava molto le componenti più tradizionaliste. Ricordo benissimo che al momento dell’apertura della libreria Claudiana di Milano la preoccupazione pressante di quella parte di sorelle e fratelli di chiesa era che potesse diventare luogo di diffusione delle idee di sinistra dei nostri giornali, creando il malinteso che fosse quella la sola voce del protestantesimo italiano».

Un dibattito vivissimo dunque anche fra le mura del tempio, con posizioni molto distanti fra loro e scontri asprissimi, ma sempre con rispetto profondo per le persone. «Ci dicevamo le cose in maniera molto schietta, le assemblee di chiesa erano infuocatissime». Si allenava la dialettica democratica insomma, pratica oggi dimenticata per non dire disconosciuta.

«Piazza Fontana si inserisce dunque in questo contesto di vita della chiesa – conclude Bernardini- che già negli anni precedenti aveva visto crescer l’attenzione verso cosa succedeva nel mondo, e che dopo la strage ha avuto ancora più peso, con la predicazione dei pastori che diventa più attenta al contesto generale, con una sensibilità cresciuta della chiesa nel segnare una posizione pubblica sui grandi temi etici e sociali».

Resta il problema, centrale, di offrire risposte concrete ai familiari delle vittime e dei feriti dell’attentato, e all’Italia intera. Per fare veramente i conti fino in fondo con una stagione tragica caratterizzata da troppe bombe (oltre a piazza Fontana ricordiamo in quegli anni l’Italicus, la strage di Gioia Tauro, Piazza della Loggia a Brescia, ancora Milano con la questura per segnalare solo le più rilevanti fino all’ultima grande tragedia della stazione di Bologna nel 1980), troppe complicità e troppa poca verità.