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Vucjak, la fine di un incubo?

La fine di un incubo, o forse soltanto un cerotto su una ferita molto più grande. Lo sgombero del campo informale per persone migranti di Vucjak, nei pressi di Bihać, deciso lo scorso 5 dicembre, mette fine a una situazione insostenibile, ma è probabile che non rappresenti una soluzione né l’inizio di una differente gestione del ramo bosniaco della cosiddetta “Rotta balcanica”.

La settimana scorsa le autorità bosniache avevano raggiunto un accordo per trasferire le persone migranti che vivono in condizioni disumane nel campo di Vucjak, presso Bihać, che verrà smantellato. La tendopoli, che era stata allestita nel giugno 2019 per ospitare le persone migranti che non erano accolte dentro i campi ufficiali di Bihać, gestiti da Iom, l’Organizzazione Internazionale per le migrazioni, era stata costruita sopra una discarica, di fianco a un campo minato. Per mesi questo luogo era stato criticato dalle istituzioni, dagli attivisti, dai volontari, dai membri delle commissioni che si occupano dei diritti umani, dalle Nazioni Unite, e anche da Dunja Mijatovic, commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, che all’inizio di dicembre aveva chiesto l’immediata chiusura di questo luogo.

Silvia Maraone, esperta di Balcani e migrazioni, coordina i progetti a tutela dei rifugiati e richiedenti asilo lungo la rotta balcanica per IPSIA e Caritas Italiana, racconta che si è arrivati alla decisione perché «nei Balcani è cominciato l’inverno. La scorsa settimana è caduta la prima seria nevicata e anche la tendopoli ne ha subito i contraccolpi, perché alcune delle tende nelle quali sono ospitate più di 600 persone sono crollate». Il campo di Vucjak è un luogo privo di servizi igienici, senza elettricità e senza acqua corrente, con pasti distribuiti due volte al giorno dalla Croce Rossa di Bihać, insostenibile per qualsiasi persona. «Quando le prime fotografie di una Vucjak innevata e la disperazione delle persone che ci sono dentro hanno cominciato a girare – racconta ancora Maraone – la situazione è stata drasticamente risolta. Il ministro bosniaco della Sicurezza, Dragan Mektic, si è incontrato con altri rappresentanti delle diverse istituzioni bosniache e si è giunti alla conclusione di far lasciare le tende e far alloggiare le persone in altre in altri campi».

Questa decisione risolve il problema?

«In realtà il fatto che le persone vengano alloggiate in altri campi è uno dei problemi, nel senso che in questo momento non ci sono campi nuovi che sono stati allestiti e quelli che ci sono in Bosnia sono sovraffollati, con una capienza massima definita da IOM insieme alle istituzioni locali. La popolazione locale è già arrabbiata per come questa situazione migratoria viene seguita, e questa popolazione non vuole persone in più rispetto a quelle che già ci sono. Abbiamo assistito nella scorsa settimana a uno svuotamento di Vucjak, per cui dopo le prime nevicate le persone hanno cominciato a scendere in città dalla montagna e sono state registrate nei campi di Bihać e sono state spostate nel campo più grande della città che è Bira, la fabbrica dei frigoriferi dove ci sono già 1500 persone. Ci sono delle questioni aperte: una riguarda appunto dove alloggiare le persone del Vucjak, che si ritiene siano tra le 600 e le 800. I numeri sono incerti, con un campo come questo in cui non è possibile fare registrazioni perché è un campo all’aperto in mezzo al niente».

Quindi che cosa succederà?

«Secondo le dichiarazioni del ministro della sicurezza Mektic, le persone verranno spostate in un nuovo campo che verrà aperto a Sarajevo in capo a tre settimane, dopo i lavori di ristrutturazione. Le persone del Vucjak verranno spostate a Blazuj, una vecchia caserma vicino a Sarajevo dove la popolazione si è già rivoltata minacciando di fare blocchi stradali e di scendere in piazza per protestare contro la decisione di aprire questo campo».

L’apertura del campo di Blazuj argina in parte l’emergenza. È anche il segno di una nuova gestione dei flussi migratori?

«Purtroppo non c’è niente di nuovo in Bosnia rispetto a quella che è la gestione di questa crisi migratoria, iniziata nell’aprile 2018, che fa seguito ai vari spostamenti che la rotta balcanica ha avuto. Abbiamo visto come già dal 2015-2016 la rotta cambiasse, mutasse, dalla Grecia verso la Macedonia verso la Serbia. In un primo momento si puntava verso l’Ungheria, con la chiusura dell’Ungheria le persone hanno cominciato ad andare verso la Croazia. Dallo scorso anno con le misure sempre più restrittive della Croazia le persone hanno cominciato ad attraversare la Bosnia Erzegovina per poi ritentare la sorte su altri luoghi di confine più spostati verso appunto la fascia della Bosnia occidentale, quindi di nuovo verso Croazia e Slovenia, per cui non ci sono grandi novità rispetto a quella che è la gestione di questa crisi. A partire ormai da un anno e mezzo è sempre come se fosse un’emergenza e a differenza di altri Stati interessati da questo flusso migratorio la Bosnia per le sue problematiche politiche non riesce a fare fronte a una gestione unitaria di questa crisi».

Ma l’emergenza è reale?

«Nonostante i numeri non siano esagerati, parliamo di circa 7.000-8.000 persone presenti nel territorio, non c’è una politica che fa sì che vengano allestiti campi o che venga istituito un sistema di accoglienza e richiesto asilo che metta le persone in condizioni di dignità e di sicurezza, per cui la Bosnia combatte la sua solita battaglia: è un Paese diviso che sta continuando a dimostrare la sua fragilità anche in questa situazione emergenziale. Quello che si sa di certo è che nei prossimi mesi sono stati già stanziati fondi da parte dell’Unione Europea attraverso diversi programmi, sono fondi strutturali, che servono anche per l’accesso all’Unione europea, sono fondi cosiddetti Ipa che servono appunto per la pre-adesione e quindi la Bosnia si trova a misurare se stessa su una partita anche politica internazionale abbastanza forte e ha questa Croazia al suo confine occidentale che si sta dimostrando violenta ed esagerata nella tipologia di chiusura e di respingimento, si mettono in atto appunto respingimenti violenti da parte della polizia croata, pushback, deportazione illegale nel territorio bosniaco senza che vengano accolte le domande di asilo delle persone che sono in transito».

Stiamo per entrare nella stagione invernale. Quali pensi saranno i luoghi da tenere maggiormente sotto controllo per il rischio di nuove emergenze umanitarie?

«Ci aspettiamo un inverno difficile, come tutti gli inverni, con temperature fredde. La gente tendenzialmente si muoverà di meno, vuol dire che i numeri si assesteranno, per poi rivedere probabilmente la ripartenza nella prossima primavera delle persone che aspettano l’inverno. Stiamo già vedendo persone che dalla Bosnia stanno tornando in Serbia perché i campi sono migliori. Dal punto di vista politico non penso che cambierà molto da qui a breve, per cui insomma lo scenario dovrebbe assestarsi fino alla prossima primavera».

 

Foto di Nicolas Pinault