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Una nuova stagione per le migrazioni in Italia?

Lo scorso settembre i ministri dell’Interno di Italia, Malta, Francia e Germania avevano sottoscritto a La Valletta un accordo per modificare la gestione delle persone migranti che arrivano in Europa dopo essere state soccorse in mare. A distanza di due mesi, si è detto e scritto molto sulla distanza tra le politiche dell’attuale governo italiano e il precedente esecutivo e sulle differenze tra la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e il suo predecessore, il segretario della Lega Matteo Salvini. Tuttavia, se si guarda ai numeri non sembra ancora esserci la discontinuità annunciata da alcune testate, come il Corriere della Sera.

Ma che cosa prevedeva l’accordo di Malta? In sostanza un meccanismo di ricollocamento automatico per chi arriva in Italia e a Malta dopo essere stato soccorso in mare, con una redistribuzione entro quattro settimane tra i diversi Paesi che hanno aderito all’accordo, indipendentemente dal fatto che abbiano o meno la possibilità di ottenere la protezione internazionale, come invece funzionava per il meccanismo di ricollocamento volontario proposto nel 2015 dalla Commissione Europea.

La svolta politica di cui ha parlato il Corriere della Sera è avvenuta alla fine di novembre, quando Germania, Francia e Malta si sono dette disposte a prendersi carico dell’82% delle persone sbarcate in Italia. Tuttavia, l’accordo avrebbe dovuto essere già applicato agli sbarchi avvenuti dal 24 al 26 novembre di Ocean viking, Aita Mari e Open Arms, da cui sono scese 364 persone. Però, stando al quotidiano milanese, al momento il ricollocamento riguarda 210 persone, il 57% del totale. Questo significa che il meccanismo non funziona ancora? «È difficile dirlo – spiega Gianfranco Schiavone, giurista e vicepresidente di Asgi – innanzitutto perché siamo di fronte a numeri estremamente bassi, tali da non poter parlare di sistema vero e proprio. Sembra di essere di nuovo di fronte a una gestione caso per caso, che speriamo sia orientata verso un principio di redistribuzione, ma all’interno di un quadro di cui si parla ma che in realtà non è un accordo».

Cosa intende?

«Non abbiamo un testo che definisca dei criteri e probabilmente uno dei motivi per cui questi criteri non sono ben definiti è il fatto che l’Italia è un paese che si trova in una situazione in cui non potrebbe certo inviare i richiedenti asilo verso altri Paesi, ma casomai una situazione di sotto-quota. Se fosse definita una quota con criteri rigorosi quali il PIL e la popolazione, l’Italia si troverebbe sicuramente a non avere diritto a redistribuire verso altri Paesi nessuno dei richiedenti asilo, perché soprattutto nell’anno 2019 l’Italia ha ricevuto pochissime domande di asilo, e quindi in una logica corretta di revisione del sistema europeo verso un principio di equa distribuzione delle responsabilità e delle presenze, forse scopriremmo che l’Italia è in una posizione molto diversa da quella pubblicamente lamentata».

Che cosa significa in termini di volontà politica? Soprattutto, cosa ci dice in merito alla necessità di riformare il regolamento di Dublino e più in generale il sistema d’asilo europeo?

«Probabilmente è presto: la nuova Commissione si è appena insediata e deve ripresentare l’intero pacchetto della riforma del sistema comune di asilo in Europa. E qui dovrà fare delle scelte: potrebbe ripartire, come dovrebbe anche per ragioni di correttezza istituzionale, dal testo votato dal Parlamento europeo nella legislatura precedente, che è un testo di vera e profonda riforma del sistema che si basa sul principio dell’obbligatorietà della redistribuzione ma anche della valutazione adeguata dei legami significativi per le persone; l’alternativa è andare verso una direzione diversa, su un testo basato su altri approcci. Debbo dire che i primi segnali in questo senso sono estremamente preoccupanti: pare che non ci sia la volontà di riprendere quel testo di riforma ma di presentare qualcosa di molto diverso, che potrebbe essere problematico. Sostanzialmente spetterebbe ancora ai Paesi di primo ingresso, quelli che stanno sui confini esterni come l’Italia, una sorta di ruolo di scrematura o di preesame delle domande. Quindi ci sarebbe un principio di redistribuzione, ma non per tutti i casi. Ci sono proposte che richiamano alcune delle discussioni che furono fatte nella vecchia legislatura, che allora furono fortunatamente accantonate e che sembrano riemergere. Di fronte a queste proposte che verranno presentate tra gennaio e febbraio bisognerà capire qual è la posizione del governo italiano, cioè se vorrà avere una maggiore capacità di intervento su questi temi e anche di indirizzo in un senso più democratico e più garantista del nuovo regolamento Dublino o se ripeterà la grigia figura del passato».

Ritornando al nostro Paese, è intervenuta nei giorni scorsi un’importante novità: il tribunale civile di Roma ha accolto il ricorso presentato da quattordici cittadini eritrei nel 2009, cittadini eritrei che vennero bloccati in mare insieme ad altri richiedenti asilo dalle autorità italiane e consegnati alle motovedette libiche. Fu uno dei classici casi di scuola di respingimento in mare. La persona migrante respinta illegalmente ha diritto a rientrare in Italia e a presentare una richiesta d’asilo. Che cosa significa per l’Italia?

«È una sentenza di grandissima importanza, sicuramente perché riconferma tutto l’orientamento giurisprudenziale esistente e anche fatto proprio dal lato la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sull’illegalità dei respingimenti e sull’obbligo del risarcimento del danno alle persone respinte. La novità è il fatto che il Tribunale di Roma ha ricordato che il diritto d’asilo è innanzitutto un diritto di accesso alla procedura e quindi un diritto di accesso al territorio, e che questo è il cuore della nostra disposizione costituzionale. Inoltre ricorda che se questo diritto è stato violato, alla persona che ha ricevuto questa violazione dev’essere permesso, se ritiene che ci siano ancora le condizioni, di poter fare ciò che gli è stato impedito di fare arbitrariamente. La sentenza vincola quindi l’amministrazione al rilascio di un visto di ingresso per motivi umanitari, l’unica formula amministrativa possibile da rilasciare nel Paese in cui, provvisoriamente e anche irregolarmente, si trova l’aspirante richiedente asilo, al fine di permettere l’ingresso in Italia e l’accesso alla domanda di asilo che non aveva avuto nel tempo. Questo principio, se applicato in altre circostanze e in futuro, cambierà profondamente il quadro, nel senso che fortifica il diritto d’asilo e di nuovo sanziona il comportamento arbitrario e illegittimo dell’amministrazione».