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Che chiesa vorremmo essere

Sull’ultimo numero stampato il settimanale Riforma ospita un contributo del pastore Davide Rostan, che vuole servire da stimolo per l’avvio di un auspicato dibattito, che si spera ampio e diffuso, sulle pagine del giornale, per venire incontro al mandato che il Sinodo ha dato alla nostra chiesa. La Tavola valdese ha incoraggiato la discussione con un’apposita lettera circolare, di cui riportiamo le domande conclusive.

1. Quali sono, nella nostra struttura organizzativa, le maggiori difficoltà da gestire; quali gli elementi di maggiore pesantezza e inefficienza?

2. Quali sono, invece, gli elementi che funzionano meglio o ulteriormente da valorizzare per uno sviluppo positivo?

3. Che cosa si ritiene essenziale preservare come principi fondanti della nostra organizzazione ecclesiastica?

4. Quali mutamenti positivi (opportunità, potenzialità) si registrano, all’interno della Chiesa e della società, rispetto ai quali l’attuale organizzazione ecclesiastica appare non adeguata?

5. Quali elementi dell’organizzazione ecclesiastica andrebbero revisionati, modificati, adattati per potere cogliere al meglio queste opportunità e sviluppare le potenzialità presenti?

Ecco il testo del pastore Rostan:

 

Che chiesa siamo o vorremmo essere. Da parte mia proverò ad “aprire” le domande, con qualche provocazione, per cercare di rendere accattivante un dibattito che di per sé rischia altrimenti di diventare un qualcosa di già sentito e che purtroppo spesso non ha portato a molto frutto, aumentando forse in molti il senso di frustrazione. 

Credo in primo luogo sia importante sgombrare il campo da alcuni fraintendimenti. Da una parte il lavoro del gruppo RISORSE, che ha analizzato e messo in evidenza molte delle caratteristiche delle nostre chiese, ha evidenziato, tra le altre cose, ciò che le nostre statistiche già da tempo registravano: un constante trend di decrescita nelle presenze a tutti i livelli delle chiesa, dall’altra il filosofo canadese Charles Taylor (L’età secolare, Feltrinelli, 2009) ci rende attenti a comparare epoche diverse; infatti «un conto è avere fede ed esprimere una pratica religiosa in una società in cui era praticamente impossibile non credere in Dio ( in cui la religione aveva un evidenza pubblica e collettiva), altro conto è essere credenti e praticanti in un’epoca in cui la fede -anche per il credente più convinto- rappresenta solo un’opzione tra le tante». Tenere aperta la tensione tra queste due considerazioni, forse ovvie, ci permette, credo, di aprirci alle domande senza nostalgie verso un passato che non tornerà, e allo stesso tempo con realismo e speranza verso un futuro nel quale, come sempre, siamo chiamati dal Signore ad annunciare la sua parola nella certezza che egli resta fedele al suo patto con l’umanità. 

Cercherò di evidenziare alcune criticità sperando che servano ad aprire la discussione e non a limitarla, dato che per ragioni di spazio ovviamente molti temi non saranno toccati.

Ministeri della chiesa. Una struttura costruita largamente sul volontariato si regge sulla disponibilità di tempo delle persone. Il mondo del lavoro e delle relazioni tra le persone ha creato un cambiamento sociale di cui si deve tenere conto a tutti i livelli, dalla collocazione del culto nella settimana – da tempo la messa più affollata in ambito cattolico è alle ore 18 del sabato per esempio –, fino alla gestione del lavoro della Commissione d’esame del Sinodo. Una struttura nella quale sono sempre meno le persone per coprire tutti gli incarichi necessari rischia costantemente di essere allo stesso tempo molto fragile per mancanza di persone e di dovere sottostare a una sorta di implicito “ricatto dei disponibili”. Credo che questo valga a tutti i livelli e per tutti gli incarichi, da quelli retribuiti a quelli che richiedono due ore di impegno volontario al mese. Concentrarsi sulla formazione nei ministeri deve tenere conto che spesso le persone da formare sono le stesse che fanno già troppe cose. Il rischio è quello di avere poche persone molto formate, e altre che si sentono tagliate fuori e che delegano a coloro che hanno già troppi incarichi creando così una polarità che non provoca crescita e diffusione delle competenze generando più spesso delle tensioni.

Ordinamento della chiesa. Ha ancora senso avere due strutture intermedie? Anni fa si pensò a un’unica struttura intermedia che raggruppasse in sé le funzioni del Circuito e del Distretto. Andrebbero ridisegnati i confini di queste aree e ridefiniti i suoi compiti. La Conferenza del II Distretto aveva approvato un atto in tal senso qualche anno fa, che poi non arrivò in Sinodo. Credo che vada salvaguardata la possibilità di incontrarsi tra chiese locali per una cura e una gestione congiunta e per offrire le indispensabili occasioni nelle quali il corpo ecclesiastico si vede e insieme riflette e rende lode. È necessaria però una riflessione su quale struttura risponda al meglio alle nostre esigenze. Inoltre ci sono alcune zone, penso alle valli valdesi e ad alcune grandi aree urbane, in cui grazie alla vicinanza o alla presenza di più chiese nel territorio si potrebbero valutare progetti particolari: collaborazioni tra chiese battiste, metodiste e valdesi all’interno della stessa città, culti in orari diversi, chiese più diffuse sul territorio e attività ecclesiastiche in comune, cura pastorale congiunta.

Provvista pastorale. Il vecchio principio di una cura pastorale per ogni campanile non è più sostenibile a lunga durata, in primo luogo per la carenza di forze pastorali. Credo già questo debba essere oggetto di una riflessione. È necessario per questo creare il più possibile, la dove si può, dei team che si occupino di alcune aree. Non è pensabile ovviamente farlo arrivandoci “per necessità” ma programmandolo nelle aree più adeguate, quelle dove ci sono più risorse e distanze minori. La formazione di persone non iscritte al ruolo che possano essere parte di questi team, così come già in parte accade, riveste un ruolo fondamentale. In un contesto dove il numero delle vocazioni pastorali diminuisce, penso che ci si debba interrogare se anche il principio che prevede che le chiese autonome possano nominare il proprio pastore o pastora sia ancora un elemento cosi fondamentale per le nostre chiese. Infatti alla luce di alcune conflittualità recenti e passate, alla luce del tempo dedicato dagli esecutivi alla sempre più complessa gestione del campo di lavoro, mi chiedo se non avrebbe più senso conservare l’autonomia delle chiese ma togliere quello che rischia di essere più un elemento di ostacolo a una buona gestione collettiva che un vantaggio. Penso che una gestione più razionale del campo di lavoro che possa evidenziare i doni di ciascun operaio e delle comunità sia un obiettivo perseguibile attraverso una gestione più collegiale dove tutti e tutte, nei reciproci ruoli, possano condividere delle linee guida. Ci sono modelli diversi a cui rifarsi, da quello della chiesa riformata inglese che prevede delle regioni nelle quali ci debbano essere un numero minimo e massimo di iscritti a ruolo, a quelli congregazionalisti puri. Credo che la disomogeneità delle nostre sedi e il numero di iscritti a ruolo rispetto al numero ottimale per una copertura del territorio suggeriscano un sistema nel quale sia l’esecutivo a scegliere e proporre in accordo con le strutture locali, con le chiese e con gli iscritti a ruolo, seguendo dei criteri esplicitati. Cosi come il Corpo pastorale è stato chiamato a dotarsi di un codice deontologico, penso che si possa giungere a un regolamento di massima che possa meglio normare questo snodo importante della nostra vita ecclesiastica che spesso è stato causa di tensioni. 

Ci auguriamo che possa nascere da queste riflessioni cosi come dalle altre suscitare dalle domande e dalle riflessioni in corso già in numerose chiese possa nascere un prezioso dibattito anche sulle pagine di Riforma che possa aiutarci per questo importante passaggio della nostra vita ecclesiastica.

 

Foto di Pietro Romeo: aula sinodale, casa valdese di Torre Pellice