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Essere minoranza? Può essere un dono

«Essere minoranza è un dono, ci fa vedere che abbiamo davvero bisogno dell’altro e quanto è importante conoscersi, avvicinarsi, creare zone di fiducia, scambio, amicizia». A parlare è Karen Thomas Smith, presidente della Chiesa evangelica in Marocco, intervistata da Marie Destraz di Réformés (guarda l’intervista originale qui) in occasione di una serie di conferenze in Svizzera.

La sua è una vicenda molto particolare: americana, arriva in Marocco 23 anni fa per lavorare all’Università Al-Akhawayn insieme al marito. Dal momento che la Chiesa evangelica ha carenza di pastori, viene «reclutata per dare una mano»: oggi è presidente di una Chiesa con un’équipe di dieci pastori e co-presidente dell’Istituto ecumenico di Teologia, Al Mowafaqa, creato nel 2012 insieme alla Chiesa cattolica e i cui diplomi sono riconosciuti dalla Facoltà protestante di Strasburgo e dall’istituto cattolico di Parigi (ne abbiamo parlato qui).

La posizione della chiesa protestante è quella di una minoranza all’interno della minoranza cristiana (circa 10.000 in una popolazione complessiva di 38 milioni; i cattolici sono tre volte tanto): «In quanto minoranza, avevamo bisogno di formare i nostri membri verso l’apertura ecumenica e interreligiosa, di vedere l’altro non come un nemico ma un vicino da conoscere e amare». Per questo, ad esempio, l’insegnamento dell’islam viene fatto da docenti musulmani.

Essere minoranza può diventare un’opportunità, osserva Smith: «La nostra situazione ci fa riavvicinare, in Marocco scopriamo che siamo effettivamente cristiani insieme». Lo dimostra la storia stessa della Chiesa protestante marocchina (membro tra l’altro della Cevaa, di cui fa parte anche la Chiesa valdese): di tradizione riformata, riconosciuta ufficialmente dal 1907, nel 1956  diventa “Chiesa evangelica”. L’idea, spiega Smith, era «raggruppare tutti i rami del protestantesimo: oggi abbiamo negli stessi banchi luterani, pentecostali, metodisti, che provano a essere cristiani insieme: è una grande sfida, abbiamo l’occasione di scoprire la nostra unità in Cristo, che è straordinaria. Nella maggior parte del mondo, soprattutto dove il cristianesimo è maggioritario, questo non avviene, perché non c’è la necessità di vivere l’unita cristiana come da noi».

Il principio dell’accoglienza è alla base della stessa società marocchina: «Il Marocco è un crocevia in cui si incontrano diverse tradizioni, ha un’identità molto forse di apertura, di incontro, di ospitalità. Nella Costituzione adottata nel 2011 è prevista la libertà di culto per tutte le religioni: ognuno può adorare Dio come vuole, ed è sostenuto e riconosciuto dal governo». I cristiani (visti di solito globalmente, senza distinguere fra cattolici e protestanti) hanno uno statuto particolare, spiega Smith, «siamo degli invitati privilegiati, in un certo senso». 

Questo è forse dovuto anche alla percezione tuttora prevalente, che vede il cristianesimo come un fenomeno occidentale, una chiesa di europei o di nord americani. Ma le cose sono molto diverse, spiega Karen Thomas Smith: «Oggi la grande maggioranza proviene dall’Africa subsahariana. In alcune delle nostre chiese, si arriva al 100% dei membri: la società marocchina deve ancora imparare a conoscere questo cristianesimo “altro”, che non è un cristianesimo imperialista occidentale, ma africano». E parlando della sua carica di presidente, Smith dice di attendere il suo successore: «Spero sarà un presidente, o una presidente, con origini dall’Africa subsahariana, perché quello è il volto della Chiesa».

Questo discorso si intreccia naturalmente con il tema dei flussi migratori, che è stato tra l’altro al centro del recente Sinodo della Chiesa evangelica del Marocco (Casablanca, 22-24 novembre) che ha radunato i rappresentanti e i pastori della dozzina di chiese sparse in tutto il paese. Anche se la maggior parte di coloro che fanno parte della Chiesa protestante marocchina non proviene dai circuiti della migrazione clandestina, ma è arrivata in Marocco per motivi di studio, spiega ancora Thomas Smith, fin dall’inizio degli anni Duemila essa è impegnata, con il sostegno del Défap (Servizio missionario protestante francese), del Comité d’Entraide International e di varie organizzazioni americane, tedesche oltre che francesi, sul fronte dell’accoglienza e «dell’accompagnamento di persone che vivono in condizioni precarie, per strada, e al di fuori della protezione delle leggi: non abbiamo i mezzi per risolvere tutti i problemi, ma abbiamo la responsabilità di essere lì, per il nostro prossimo in difficoltà». In particolare, uno dei progetti più recenti è l’apertura di un centro di accoglienza dedicato ai minori non accompagnati.

 

Fonte: www.reformes.ch (traduzione e adattamento a cura di Sara Tourn)