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Burkina Faso, tempo di emergenza

Le 14 persone uccise in un attacco a una chiesa protestante durante il culto domenicale hanno segnato una nuova giornata di violenza in Burkina Faso. Il presidente Roch Marc Christian Kabore ha condannato l’attacco definendolo “barbaro”, ma non ha saputo fornire spiegazioni della stagione della violenza di fronte a cui si trova il suo Paese.

Così schiacciato tra il Mali a nord, il Niger a est e i Paesi che si affacciano sul Golfo di Guinea a sud, il Burkina Faso è sempre e soltanto stato collocato nella categoria dei “Paesi più poveri al mondo” e lì dimenticato, in una specie di immutabilità. L’attentato avvenuto nella cittadina di Hantoukoura, vicino al confine con il Niger, in una zona nota per il brigantaggio e che è stata attaccata nell’ultimo anno da gruppi con sospetti legami con al-Qaeda e Daesh, non è il primo e non sarà l’ultimo segno di un grave errore di valutazione: se fino al 2015, in effetti, Ouagadougou è stata in gran parte risparmiata dalla violenza che aveva segnato il Mali e il Niger, oggi la situazione è completamente diversa. Le bande criminali, le milizie e i gruppi terroristici hanno iniziato via via ad addentrarsi in Burkina Faso, prima dal confine nord e poi sempre più in profondità nel Paese.

Dal 2017 a oggi questa tendenza si è rafforzata, al punto che gli attacchi si sono quadruplicati, e quello che fino alla metà del decennio era considerato un luogo pacifico e tollerante, basato sull’agricoltura e con una popolazione giovane e volenterosa, oggi è un focolaio di tensione pienamente inserito nell’instabilità che caratterizza da anni la regione del Sahel, a sud del deserto del Sahara. Secondo l’Africa Center for Strategic Studies di Washington, il numero di vittime delle violenze nel Paese è sulla buona strada per aumentare del 60% quest’anno, rispetto al bilancio di 1.112 morti in attentati nel 2018, mentre oltre 500.000 persone, su una popolazione complessiva di 19 milioni, sono state costrette a lasciare le proprie case a causa dei disordini e della paura legata alle crescenti violenze. «Le persone in fuga dalla violenza – ha dichiarato a novembre Babar Baloch, portavoce dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati – denunciano attacchi ai loro villaggi da parte di estremisti che spesso reclutano forzatamente residenti maschi sotto la minaccia delle armi, uccidendo quelli che resistono».

L’attentato nella chiesa di Hantoukoura non è il primo attacco in un luogo di culto: i miliziani avevano già giustiziato sommariamente un sacerdote cattolico nella zona orientale di Bittou a febbraio e avevano preso d’assalto un culto in una chiesa protestante due mesi dopo a Silgadji, nel nord, uccidendo cinque persone. Inoltre, una chiesa era stata incendiata a maggio, mentre il giorno successivo era stata attaccata una processione religiosa, e a giugno un culto domenicale era stato messo nel mirino nel nord del Paese. Ma le vittime non mancano nemmeno tra i cittadini della maggioranza musulmana, segno che la questione non va necessariamente inserita nel filone dei “cristiani sotto assedio”, spesso una lettura troppo semplice di situazioni complesse.

La causa di questa violenza va cercata nelle azioni dei gruppi estremisti, che stanno sfruttando il territorio burkinese per reclutare e formare seguaci e pianificare attacchi da eseguire in tutto il mondo. Ma tutto comincia ancora prima, con il crollo del governo libico di Muhammar Gheddafi nel 2011: i mercenari che servivano il governo di Tripoli provenivano in gran parte dal Sahel, e una volta rimasti disoccupati sono tornati in Mali, dove molti non hanno avuto alternativa se non mettersi al servizio dei gruppi terroristici, gli unici capaci di pagare stipendi con regolarità a chi di mestiere fa la guerra. Dal Mali al Burkina Faso, la strada è stata breve, e la situazione a Ouagadougou sta diventando sempre più simile a quella di Bamako. Ma se in Mali opera da anni una missione delle Nazioni Unite, la MINUSMA, che vede circa 15.000 soldati attivi nel paese, il Burkina Faso non ha niente di tutto questo. Questo vuoto della comunità internazionale ha sicuramente contribuito a spostare lì l’emergenza, al punto che oggi in molti ritengono che la situazione sia per molti versi peggiore rispetto a quando la Francia è intervenuta per la prima volta per rimuovere i gruppi jihadisti nel nord del Mali nel 2012.

Una parte del territorio non è più sotto il controllo governativo, ma dipende da gruppi jihadisti come Ansaroul Islam, Al Qaeda nel Maghreb islamico e lo Stato islamico nel Grande Sahara.

Ma come ha fatto la situazione a degenerare così velocemente? I gruppi jihadisti erano già presenti nel Paese prima del 2015, ma fino ad allora erano stati tenuti a bada da una rete di negoziati informali voluta da Blaise Compaoré, presidente per 27 anni. Quando il presidente venne rimosso dal potere, questo equilibrio basato sulla reciproca non ingerenza è crollato.

La fine del regime di Compaoré e lo scioglimento della Guardia Presidenziale hanno avviato una fase di violenza a cui il nuovo governo di transizione ha saputo rispondere solo con altre violazioni, che non hanno risolto il problema e hanno fatto sentire i civili ancora più minacciati. La presenza sempre più grande di armi e di soldati ha finito per alimentare la violenza etnica e ha incoraggiato la formazione di milizie filogovernative. La guerra asimmetrica, diventata tratto distintivo degli ultimi due decenni, è quindi esplosa anche in Burkina Faso.

Come sempre, i primi a pagare situazioni di crisi sono i civili: a novembre il World Food Programme, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di alimentazione, ha lanciato l’allarme sulla “crescente crisi umanitaria” legata all’abbandono delle terre da parte di circa 500.000 persone. La malnutrizione ha infatti superato i livelli di emergenza: un quinto dei bambini sfollati soffre di malnutrizione, e 2,4 milioni di persone nell’area del Sahel centrale hanno bisogno di assistenza alimentare. Man mano che le comunità accolgono gli sfollati, diventa sempre più evidente l’insufficienza delle risorse.

Ma altre crisi sono all’orizzonte: soltanto nelle zone direttamente controllate dai gruppi jihadisti, sono oltre 320.000 gli studenti che non possono più andare a scuola.

Attentati, fame, crollo della scolarizzazione: in un paese in cui da decenni i bambini musulmani e cristiani giocano insieme per strada, il terreno in cui piantare i semi della violenza è sempre più fertile.