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Un mondo senza mine è possibile? Un quadro di luci e ombre

Lo scorso 21 novembre è stata presentata a Ginevra l’ultima edizione del Landmine Monitor, il rapporto annuale sullo stato dell’applicazione del Trattato di messa al bando delle mine antipersona, firmato nel 1997 ed entrato in vigore due anni dopo. A vent’anni di distanza, sono 164 i Paesi che hanno ratificato la convenzione, mentre 33 l’hanno firmata. Anche se all’appello mancano Paesi di primo piano, come gli Stati Uniti, il valore globale del trattato non è messo in discussione. Questi Stati, racconta infatti Giuseppe Schiavello, direttore della Campagna italiana contro le mine Onlus, «hanno comunque di fatto una moratoria sulla vendita di queste armi» e «in ogni caso l’uso, la produzione e la vendita di queste mine proibite dal trattato è stigmatizzato dalla comunità internazionale, pertanto a parte alcuni Stati in cui viene registrato l’uso di mine antipersona, di fatto la produzione e il commercio su grande scala è fermo». In alcuni Paesi l’impiego di mine antipersona rimane documentato, in particolare da parte di attori non statali, come in Afghanistan, India, Nigeria, Yemen e Myanmar. In quest’ultimo Paese, che non aderisce al Trattato, è stato confermato l’uso anche da parte delle forze governative.

Il Report, che verrà anche presentato ad Oslo in occasione della quarta Conferenza di Revisione del Trattato, sottolinea tuttavia un’inversione di tendenza: dopo molti anni di calo dei cosiddetti “incidenti” registrati, il 2018 ha segnato un numero eccezionalmente alto di casi, dovuti sia a mine antipersona, sia a residuati bellici esplosivi (ERW) compresi mine improvvisate e residui di munizioni a grappolo. Nel periodo di riferimento del Report, infatti, sono stati registrati 6.897 vittime tra persone decedute (3.059) e persone rimaste ferite (3.837) in 50 paesi e altre aree, di cui 32 sono Stati Parte del Trattato di Messa al Bando delle mine. «Consideriamo sempre – spiega Schiavello – che gli incidenti vengono registrati per difetto e saranno secondo me almeno un 20 per cento in più. Ricordiamoci che queste registrazioni avvengono in Paesi dove è difficilissimo tener traccia di alcune situazioni. Purtroppo le popolazioni civili sono normalmente il target di queste mine, non il target militare ma quello effettivo». Come testimoniato dal Monitor, infatti, i civili rappresentano quasi i tre quarti del totale. Scendendo ancora di più nel dettaglio, tra tutti gli incidenti che coinvolgono i civili il 54% riguardano bambini. «Nello svolgimento di attività di sopravvivenza giornaliera le persone possono incontrare mine e ordigni trappola magari semplicemente portando al pascolo una  pecora o cercando dell’acqua o della legna. È questo che li rende poi particolarmente insidiosi, senza considerare i bambini, che magari vanno a toccarle per giocarci o addirittura per recuperare il ferro, come peraltro accadeva anche nel dopoguerra in Italia».

Le mine antipersona non sono incidenti, ma armi a tutti gli effetti, con un’evidente complicazione: oltre alle attività di bonifica dei territori minati, di per sé onerosa e spesso di difficile attuazione ma che ha portato a grandi risultati, è necessario considerare i sopravvissuti, una categoria particolarmente esposta, perché le mine possono essere rimosse, ma le vittime rimangono. «Noi – chiarisce Giuseppe Schiavello – per vittime consideriamo lo stesso nucleo familiare e la stessa comunità di appartenenza, perché il presupposto che una persona che non sarà abile a lavorare per esempio nell’agricoltura e che magari non avrà una protesi o non verrà supportata anche nella ripresa fisioterapica, graverà anche sulla propria famiglia e sulla propria comunità tanto da farli considerare ai margini della società».

Sono passati dieci anni dalla seconda conferenza di revisione del Trattato, che si tenne a Cartagena, in Colombia, nel 2009. In questi anni si è lavorato moltissimo sulla cosiddetta Mine Action, un concetto che tiene insieme alcuni pilastri: la bonifica umanitaria, l’educazione al rischio, l’assistenza alle vittime, l’eliminazione degli stock, e la promozione di politiche che riducano il rischio. Tuttavia, i risultati di alcuni tra questi ambiti è ancora parziale. «In questi giorni ad Oslo – continua Schiavello – si parlerà proprio con un po’ più di attenzione di questo pilastro, sarà la sfida del prossimo decennio. Di fatto la victim assistance ha un gap e quindi andrà andrà comunque colmato. I programmi di cooperazione e gli interventi delle organizzazioni umanitarie dovranno tener conto e concentrarsi sul recupero e sul reinserimento socioeconomico dei sopravvissuti e quindi anche il supporto in questo modo alle famiglie e alle comunità, dove si opera in questo modo anche soltanto poter fornire una protesi a persone che non potrebbero permetterselo è un primo passo, perché sono persone che si sentono stigmatizzate solo il fatto di aver avuto un’amputazione. In questo pilastro della Mine Action sono sempre investiti molti meno milioni di dollari rispetto alla Mine Action come bonifica umanitaria. Crediamo che adesso bisognerà dare ampio spazio a questa attività cercando anche di recuperare il tempo perso».

Ma se lo stigma nei confronti delle vittime è un fenomeno da contrastare, c’è un’altra forma di stigma che in questi anni ha fatto sentire i propri effetti positivi, quella verso i produttori, i commercianti e gli utilizzatori di mine antipersona. In un’epoca in cui il diritto internazionale è sempre meno rispettato, questo meccanismo diventa ancor più fondamentale. «Purtroppo – ricorda il direttore della Campagna italiana contro le mine Onlus – dove funziona il diritto umanitario si vede un po’ meno- Oggi siamo abituati a vedere soprattutto dove questo diritto umanitario viene violato, ma lo stigma funziona. Dobbiamo considerare che sono state distrutte dagli stock quasi 50 milioni di mine, che sarebbero state tutte potenziali vittime. A nessuno piace essere indicato come utilizzatore degli strumenti proibiti da questa Convenzione, ma c’è ancora un po’ di strada da fare».

Oggi, infatti, rimango ancora 60 Paesi ed altre aree “inquinate” da mine antipersona, e in particolare una contaminazione massiccia (che per gli estensori del trattato corrisponde a un’area di più di 100km quadrati) sia presente in Afghanistan, Angola, Bosnia ed Erzegovina, Ciad, Cambogia, Croazia, Iraq, Thailandia, Turchia e Yemen, così come in Azerbaijan (Stato non parte del Trattato) e nell’area del Sahara Occidentale, il cui status rimane conteso.