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Gli stranieri ci rubano il lavoro? La risposta è no

Uno stereotipo è, per sua stessa definizione, un elemento pre-logico, basato su pregiudizi anziché su informazioni reali. Eppure, la sua capacità di mettere radici e affermarsi come verità sembra impossibile da scalfire, anche se viviamo in quella che spesso, non senza un eccessivo ottimismo, definiamo “società dell’informazione”.

Quando si parla di immigrazione, poi, gli stereotipi riescono a compiere un ulteriore salto di qualità, diventando motore del dibattito e dell’azione politica. Tra tutti i concetti preconfezionati che si affermano in questa sfera, probabilmente il più antico e radicato è quello secondo cui “gli immigrati – o gli stranieri, a scelta – ci rubano il lavoro”.

Ma quanto c’è di vero? Poco, secondo l’ultimo lavoro curato dalla Fondazione Leone Moressa, che da anni si interroga sulla relazione tra immigrazione ed economia e che prova a rispondere proprio a quella domanda: «Questo stereotipo – racconta Enrico Di Pasquale, ricercatore della Fondazione Leone Moressa –  proviene principalmente da tre fattori: il primo è la paura verso l’immigrazione, verso lo straniero, che è una paura innata in tutte le comunità le società riceventi. La seconda è l’idea che il lavoro sia un bene scarso e quindi che ci sia bisogno di togliere lavoro a qualcuno per darne a qualcun altro. Questo lo vediamo, è un’idea diffusa sia per quanto riguarda gli immigrati ma anche ad esempio per quanto riguarda i giovani, esiste l’idea che si debbano mandare in pensione gli anziani per liberare posti per i giovani. Il terzo elemento è un dato quantitativo, cioè il fatto che il numero di occupati stranieri sia molto simile al numero di disoccupati italiani, circa due milioni e mezzo, quindi si è diffusa l’idea per cui se mandassimo via tutti gli occupati stranieri libereremmo posti per i disoccupati italiani. In realtà non è così».

La questione, come sempre succede quando si maneggia uno stereotipo, è molto più complessa: la trasformazione del mercato del lavoro, infatti, viene seguita dalle diverse realtà che lo compongono, anche se in quote non sempre uguali. «Il numero di occupati stranieri – considera Di Pasquale – è costantemente aumentato negli ultimi anni, anche negli anni della crisi, ma in realtà è aumentato soprattutto per una questione demografica, perché sono cresciute le persone immigrate in Italia, quindi di conseguenza anche gli occupati». Questo aumento non è comunque avvenuto a discapito dei lavoratori italiani, perché osservando i dati dell’ultimo decennio si capisce quanto gli stranieri abbiano risentito maggiormente della crisi rispetto gli italiani, marcando un calo del tasso di occupazione più forte, dovuto principalmente alla posizione sociale: i lavoratori stranieri, infatti, sono inseriti in settori molto esposti alla crisi, come l’edilizia. «C’è da dire – chiarisce però Enrico Di Pasquale – che oltre a essere complementari, i lavori degli stranieri e degli italiani hanno anche una diversa adattabilità alla crisi. Quindi se è vero che hanno perso più facilmente il lavoro, hanno anche avuto più facilità nel ritrovarlo perché hanno una maggiore adattabilità territoriale, visto che si spostano più facilmente, sia settoriale, perché cambiano più facilmente mansione e settore».

Quando si osserva il fenomeno dall’Italia, va sottolineato quanto l’occupazione dei lavoratori stranieri non sia soltanto dettata dalle tendenze del mercato, ma quanto le leggi abbiano inciso. Con la legge Bossi-Fini del 2002, ancora in vigore e sempre meno discussa, può entrare regolarmente in Italia solo chi è già in possesso di un contratto di lavoro che gli consenta il mantenimento economico, e il permesso di soggiorno viene concesso solo a chi possiede un contratto di lavoro. Questa compressione dell’accesso legale al nostro Paese ha generato due fenomeni differenti, uno dei quali espresso in numeri: i permessi di soggiorno rilasciati in Italia per motivi di lavoro sono ijn costante diminuzione. «L’Italia è il Paese con il minor numero di permessi di soggiorno per motivi lavorativi: poco meno di 14.000 nell’ultimo anno, quindi un numero molto inferiore rispetto a quello di dieci anni fa, quando erano oltre 300.000. Dall’inizio della crisi abbiamo, come Paese, in qualche modo avvalorato l’idea che essendoci appunto la crisi e quindi un aumento della disoccupazione non ci fosse bisogno di lavoratori stranieri irregolari. In realtà con questa politica in questi anni il risultato è stato l’aumento degli arrivi irregolari, quindi degli sbarchi, e l’aumento del lavoro nero del lavoro irregolare». La seconda conseguenza di questa norma è stata quella di far scomparire il tema del lavoro dal dibattito politico sull’immigrazione, oggi tutto giocato sulla polarizzazione tra favorevoli e contrari all’accoglienza, rafforzando quindi indirettamente lo stereotipo, che come tutti i luoghi comuni è particolarmente abile a muoversi negli spazi vuoti.

Oltre che dalla volontà di parlarne, spesso la comprensione o decostruzione di uno stereotipo passa anche attraverso la capacità di metterlo in una differente prospettiva. In questo caso, la domanda iniziale potrebbe essere riformulata in questo modo: La presenza straniera nel mercato del lavoro è complementare o in competizione con quella degli italiani? Posta in questo modo, la risposta è chiara: «È complementare – conclude Di Pasquale – nel senso che anche negli stessi settori gli stranieri si occupano di attività manuali, mentre gli italiani prevalentemente di attività impiegatizie o comunque mansioni più qualificate. Quando si dice “anche negli stessi settori” si dice perché per esempio nella sanità vediamo chiaramente questa divisione, con medici e infermieri soprattutto italiani e operatori sanitari e soprattutto badanti, quindi assistenti che lavorano a domicilio, prevalentemente stranieri. Anche se pensiamo ai nuovi lavori e ai nuovi settori, come per esempio l’ecommerce, vediamo che sicuramente è un settore che ha bisogno di competenze informatiche altamente qualificate, ma ha anche bisogno di persone che manualmente smistano i pacchi e li consegnano a domicilio, quindi anche i nuovi settori richiedono una forza lavoro manuale sempre più consistente».