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Sulla rotta balcanica, tra attesa e disillusione

In questi giorni si discute molto in Italia del rinnovo del Memorandum Italia-Libia firmato nel febbraio del 2017 e prorogato, finora senza modifiche, anche dall’attuale governo. Eppure, mentre il dibattito sulle migrazioni nel nostro Paese è tutto appiattito sulla direttrice che va dall’Africa subsahariana o dal Corno d’Africa verso le coste libiche e poi di lì nel Mediterraneo, quella rotta non è l’unica. Anzi, in questo momento non è neppure la principale. Se ci si sposta verso est, infatti, è possibile ritrovare una rotta migratoria che era diventata estremamente famosa nell’estate del 2015, quando fu attraversata da un milione di cittadini siriani e asiatici in fuga dalle guerre, e di cui ci siamo dimenticati rapidamente: è la cosiddetta “rotta balcanica”. Nel marzo del 2016, in seguito agli accordi tra i governi europei e la Turchia, quel percorso era stato dichiarato “chiuso” dal Presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk. Eppure, sappiamo che questo non è vero, e quella rotta è tutt’altro che spopolata.

Nelle ultime settimane si è tornati a porre l’attenzione su un punto specifico di quel percorso, ovvero il confine tra Bosnia-Erzegovina e Croazia, e ancora più nello specifico del campo profughi di Vučjak, ai confini della città di Bihać, a un passo dall’Unione europea.

«Questo campo – racconta Chiara Milan, ricercatrice al Centre for South-East European Studies dell’Università di Graz – è stato ed è tuttora al centro di polemiche perché ospita tra le 600 e le 1.000 persone attualmente senz’acqua, senza elettricità e senza assistenza medica, mentre la maggior parte degli altri campi migranti in Bosnia che si trovano nel cantone di Una-Sana sono gestiti dalla agenzia ONU per le migrazioni, l’Oim».

Nonostante tutte le organizzazioni internazionali, dall’Unhcr all’Unione Europea, chiedano alle autorità locali di chiudere il campo di Vučjak per la mancanza di requisiti fondamentali per ospitare esseri umani, visto che sorge su una discarica, le autorità locali continuano ad insistere nel trasferire lì le persone migranti. «In questa cittadina – spiega Silvia Maraone, coordinatrice dei progetti a tutela di rifugiati e richiedenti asilo lungo la rotta balcanica per Ipsia e Caritas Italiana – in questo momento c’è una presenza di circa 7.000 migranti e richiedenti asilo che hanno come obiettivo quello di passare le frontiere per andare verso i Paesi dell’Unione europea». I cinque campi ufficiali affidati all’Oim, tuttavia, sono pieni, e per quello il Comune di Bihać ha creato un campo informale, che non è un campo riconosciuto, con pochi servizi igienici e senza allacci elettrici. «Questo campo – continua Maraone – è stato costruito con l’obiettivo di alleggerire la presenza dei migranti che non sono all’interno dei campi ufficiali di Iom nella città di Bihać, perché appunto quest’anno in Bosnia-Erzegovina si calcola siano arrivate almeno 20.000 persone. Quelle che non possono stare nei campi, perché i campi sono pieni, si arrangiano a dormire nei parchi e negli edifici abbandonati». In vista della scorsa estate, il comune di Bihać, che da alcuni anni sta sviluppando l’industria turistica, ha deciso di togliere le persone dalle strade, e lo ha fatto attraverso interventi della polizia.

«Più o meno con cadenza giornaliera – prosegue Silvia Maraone – la polizia gira intorno ai campi e va negli edifici occupati, forzando le persone ad andare a piedi fino a questo campo di Vučjak. È una pratica inumana che spesso coinvolge anche i minori non accompagnati, perché nonostante per esempio questi ragazzi mostrino ai poliziotti che fanno i rastrellamenti i loro documenti in cui è evidente l’età la polizia in quei momenti non sta a calcolare chi è chi e li portano su in questa discarica-tendopoli». Una pratica che purtroppo ha smesso da tempo di sorprendere, e che non riguarda soltanto la “rotta balcanica”, visto che è stata riscontrata anche sul confine tra Italia e Francia. Intanto, l’Unione europea ha stanziato negli ultimi due anni circa 30 milioni di euro per la Bosnia con lo scopo di predisporre nuove sedi ufficiali per le persone migranti presenti sul territorio. Se da un lato è un’operazione necessaria per evitare una catastrofe umanitaria, per contro è inevitabile chiedersi se non rappresenti soltanto uno spostamento del problema nello spazio e nel tempo, delegando a diversi momenti emergenziali la sua gestione. «È un’affermazione reale – afferma Maraone – nel senso che c’è anche un forte problema politico in Bosnia-Erzegovina, per cui tutta la gestione dei profughi effettivamente ricade sul cantone di Una-Sana. La maggior parte sono all’interno di questa regione mentre ci sono circa mille persone che gravitano tra Tuzla, Sarajevo e Mostar, dove ci sono altri due centri dell’Oim».

La rotta balcanica, nonostante l’accordo turco-europeo, non è mai stata chiusa per davvero, ma anzi, nell’estate del 2019 sembra aver vissuto una ripresa del movimento: «è come se la Turchia – conferma Silvia Maraone – avesse allentato i controlli sui confini». Del resto, Erdogan non ha mai esitato a utilizzare le migrazioni come un’arma diplomatica con cui ricattare l’Unione europea, tra l’altro molto sensibile al tema.

Ma il rapporto tra Bruxelles e Ankara non è l’unico elemento politico di tensione: la Croazia, infatti, ha ricevuto pochi giorni fa il via libera per entrare nello spazio Schengen, entrando quindi nella zona di libero transito in cambio di un rafforzamento dei confini esterni. «Questo Stato – afferma Silvia Maraone – sta già facendo la parte del difensore e baluardo dei confini esterni dell’Unione europea, sta svolgendo zelantemente il proprio compito e anche in questo caso ci sono delle violazioni dei diritti umani ripetute e riconosciute anche a livello internazionale. C’è anche una commissione del Parlamento europeo che ha già riportato quello che avviene, i pushback, le deportazioni violente delle persone che vengono trovate ad aver attraversato illegalmente i confini dalla Bosnia, e queste persone anziché poter deporre la domanda d’asilo vengono catturate, tendenzialmente vengono rapinate, i cellulari vengono spaccati, i loro averi vengono bruciati e rimandate illegalmente indietro in Bosnia attraverso valichi di frontiera non regolari. Quindi si sta andando contro le violazioni che prevedono la possibilità di poter fare la domanda d’asilo nel paese nel quale si arriva. Quindi c’è sicuramente un eccesso di violenza e un eccesso di zelo da parte della polizia croata nel momento in cui intercettano le centinaia di persone che tutti i giorni provano ad attraversare i confini». Già prima dell’ingresso nello spazio Schengen, la Croazia ha ricevuto quasi 7 milioni di euro dall’Unione europea per rafforzare la sorveglianza alle frontiere e migliorare la capacità di contrasto dei flussi migratori.

La situazione al confine tra Bosnia-Erzegovina e Croazia rimane molto tesa, ma la grande preoccupazione riguarda l’arrivo dell’inverno, che rischia di far esplodere una crisi umanitaria. Eppure, chi viene respinto a più riprese sembra volerci provare e riprovare ancora: «non so – conclude Silvia Maraone – se sia un processo di resilienza e resistenza, ma le persone che vengono ricacciate con violenza o che vivono in queste condizioni inumane in realtà sono molto tranquille, non hanno mai dato per esempio vita a rivolte e proteste. Purtroppo subiscono passivamente le scelte che vengono fatte sulla loro pelle perché il loro obiettivo comunque è quello di superare il confine e di arrivare a vivere una vita migliore rispetto a quella che vivevano nel paese di origine. Nonostante tutti i tentativi di piegarle, queste persone hanno un obiettivo ben prefissato e sono disposte a subire anche le peggiori violenze, che a volte purtroppo si traducono anche in morte sperando in un futuro migliore, che io spero che trovino presto. Tutte le volte quando li saluto dico a loro che spero di non vederli più qui, è il saluto e l’augurio migliore che posso fare a queste persone».