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La Corte Costituzionale: le pene abbiano un fine rieducativo

Come accade spesso (ultimamente anche nello spinoso tema del fine vita) il Parlamento italiano, paralizzato da partiti, di maggioranza e di opposizione, che guardano all’immediato tornaconto elettorale e non a politiche di largo respiro, anche sul tema delle carceri si fa riprendere dalle supreme Corti che correggono le storture del nostro sistema di pena. 

Così, dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) che ha censurato l’ergastolo ostativo come «pena inumana e degradante», arriva anche la sentenza della Corte Costituzionale sullo stesso tema: i benefici previsti dall’ordinamento penitenziario carcerario non possono essere negati a priori ai detenuti, anche se non collaborano con la giustizia. A essere dichiarato incostituzionale, dunque, è l’articolo 4bis, comma 1, dell’ordinamento dove si prevede, in maniera automatica, la non concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia «anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino dei collegamenti con la criminalità organizzata».

Una scelta, quella della Consulta, che segue il principio costituzionale del fine rieducativo della pena, sostenendo che «la presunzione di pericolosità sociale del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del carcere nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità, dalla Procura antimafia o antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica.

In sostanza, quindi, non ci saranno orde di criminali che usciranno dal carcere per seminare morte e violenza nelle nostre città, perché ogni richiesta di permesso premio sarà valutata caso per caso da un magistrato e supportata da vari pareri e soprattutto vincolata al fatto che «il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo».

Un passo importante sul percorso tracciato dall’articolo 27 della nostra Costituzione, e sulla stessa linea era andata la già citata sentenza della Cedu: «È inammissibile privare le persone della libertà senza impegnarsi per la loro riabilitazione e senza fornire la possibilità di riconquistare quella libertà in una data futura».

Con alcune eccezioni, le reazioni del mondo politico sono state allarmate, preoccupate, catastrofiste: dalle dichiarazioni estreme («è una sentenza che grida vendetta», ha detto il leader della Lega, Matteo Salvini) a quelle più pacate ma comunque negative («sentenza stravagante, non condivido», ha commentato il segretario del Pd, Nicola Zingaretti). Il dibattito, ovviamente, resta aperto ed è più che legittimo criticare ogni sentenza. Resta, però, l’impressione di una politica che sceglie secondo i (presunti) umori dell’elettorato, cercando di parlare alla pancia dei cittadini, invece di rivedere seriamente quanto e come le nostre norme sulla pena e la loro applicazione (vedi le pessime condizioni e il sovraffollamento in molti istituti penitenziari) siano effettivamente compatibili con la Costituzione e i principi dello stato di diritto. Magari raccogliendo (con un dibattito serio, però, e non di pancia) la provocazione di Maurizio Turco, segretario del Partito radicale: «Questa è solo una prima tappa. Il nostro obiettivo è che la Corte dichiari incostituzionale la misura dell’ergastolo».