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Il diritto al viaggio per la libertà

«In nome di Dio, fate qualcosa per noi». Dentro il centro di detenzione di Trik al Sikka, in Libia, la situazione di uomini e donne è disperata e sembra non avere soluzione. È andata in onda venerdì scorso, a Propaganda Live sul canale La7, l’intervista inserita nel nuovo reportage esclusivo della giornalista e reporter italiana Francesca Mannocchi. Una testimonianza sull’attualità di un mondo taciuto e tremendo: i centri di detenzione per migranti.
Non solo in Libia, in Grecia o ai confini tra gli Stati Uniti e il Messico, ma ovunque. Strutture colme di attesa e di speranza le quali nascondono un lato oscuro della nostra umanità e del nostro presente.

Si parla spesso del viaggio come diritto, come possibilità imprescindibile per l’uomo in questo periodo di necessità, migrazioni e mutamenti cambiamenti climatici e non. Al centro dell’attenzione mediatica ci sono i volti e le vite, spesso spersonalizzate, di uomini e donne alla ricerca della libertà e di vite nuove da vivere. Le immagini ritraggono barconi e sbarchi, salvagenti e stracci galleggianti, dettagli atroci, spezzati. Ciò che non è dato sapere però, la maggior parte delle volte, ha una storia precedente. Giunge prima di una barca che affonda o di un messaggio intercettato dalla Guardia Costiera Italiana.

2013. È un giorno di lavoro qualunque quello in cui Behrouz Boochani, giornalista, sta lavorando nella redazione in cui alcuni suoi colleghi vengono arrestati dalla polizia della sua città: Ilam, situata nel Kurdistan iraniano. Saranno così le intimidazioni da parte del governo e la chiusura del suo giornale a far nascere la decisione in Boochani di recarsi clandestinamente l’Indonesia per giungere in Australia, il Paese in cui progetta di chiedere lo status di rifugiato politico.
Non ci arriverà, anzi a dire il vero non ci è ancora arrivato sei anni dopo. Una volta in Indonesia viene intercerttato nel tentativo di completare il suo viaggio dalle forze militari australiane che lo confinano nel centro di detenzione per immigrati irregolari di Manus Island in Papua Nuova Guinea.

Sarà proprio a Manus Island che inizierà la vera e propria odissea di Behrouz Boochani, un giornalista trentaseienne che trovatosi nella completa assenza di libertà inizia un percorso di attivismo di denuncia nei confronti della politica anti-migratoria.
Le condizioni di vita dei migranti fermi nelle strutture selezionate dalle forze militari australiane celano realtà caratterizzate da violenza, umiliazioni e indigenza a cui sono sottoposti i rifugiati. Articoli e documentari su Twitter e Facebook hanno caratterizzato il lavoro del giornalista kurdo iraniano. Tramite i suoi scritti, pubblicati sui giornali di tutto il mondo, è riuscito a testimoniare la sua condizione utilizzando l’unica cosa di proprietà che aveva a disposizione.

“Nessun amico se non le montagne” nasce dai messaggi di Behrouz Boochani digitati via WhatsApp a Omid Tofighian che a sua volta l’ha tradotto in inglese. Un romanzo autobiografico. Una testimonianza coraggiosa. L’atto di resistenza necessario che è venuto alla luce scoperchiando il mondo reale dei centri di detenzione per migranti.
Non solo Libia, non solo Grecia ma anche Papua Nuova Guinea, Cambogia, Australia e molti, altri sconosciuti.

«Viviamo in un limbo da più di cinque anni. Questa barbara politica di esilio ha già ucciso dodici persone. È una vergogna per i politici e per i mezzi d’informazione australiani, che ignorano quello che succede qui».

Edito per la casa editrice indipendente torinese add editore, “Nessun amico se non le montagne” è un libro che ha vinto il Victorian Prize 2019. Il prestigioso premio letterario australiano che da regolamento è destinato ai cittadini australiani, ma l’eccezionale impresa e operato di Boochani ha fatto sì che la giuria australiana – pur non smuovendo in alcun modo la politica del Paese sulla questione migratoria – compisse una vera e propria eccezione. In seguito sono arrivati il NSW Premier’s Award 2019, l’Asia General Non Fiction Book 2019, il National Biography Award e nel 2018 gli è stato conferito il premio Anna Politkovskaja. Una vera e propria ondata di riconoscimenti nazionali e internazionali che stanno portando la questione di un attivista coraggioso al centro di un dibattito attuale, necessario.