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Ecuador, una vittoria indigena?

Il 14 ottobre le trattative tra governo e movimenti indigeni hanno prodotto un primo accordo, festeggiato animatamente dalla popolazione nelle vie della capitale.

Fino a qualche giorno prima la rivolta popolare pareva ormai avviata verso l’insurrezione. Il movimento indigeno in generale e la CONAIE (la confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador) in particolare avevano detto chiaramente che “nessun accordo è possibile senza il ritiro delle misure anti-sociali disposte dal governo. Non negozieremo con il sangue dei nostri fratelli”. Alla fine il presidente Lenin Moreno ha accettato di ritirare il decreto che sopprimeva le sovvenzioni per i carburanti. Decreto che aveva maggiorato il prezzo della benzina  del 123%.

Iniziata il 3 ottobre, la ribellione è costata la vita a sette persone. Stando ai dati forniti dall’ufficio del Difensore del popolo, un organismo pubblico, i feriti sarebbero circa 1300 (oltre a centinaia di poliziotti) e gli arrestati 1.152.

Risaliva al giorno 8 settembre l’ordine di copri-fuoco notturno per sessanta giorni intorno ai luoghi istituzionali (“le zone adiacenti ai palazzi e  alle installazioni strategiche”). Era la risposta  del presidente ai primi moti di protesta. Veniva quindi proclamato lo stato di emergenza (sempre per sessanta giorni: in questo arco di tempo le forze armate erano autorizzate a reprimere direttamente i movimenti di protesta) e veniva trasferita la sede del governo da Quito a Guayaquil.

Per ampiezza e radicalità (scioperi, manifestazioni, scontri con la polizia, incendi di veicoli militari, blocchi stradali e dei pozzi petroliferi) il movimento iniziato in ottobre è stato paragonato a quelli del passato, sempre a direzione indigena, contro la dollarizzazione.

Nei giorni scorsi i manifestanti avevano occupato il Parlamento – se pur brevemente – e per allontanarli esercito e polizia erano intervenuti molto duramente.  

I rivoltosi avevano anche catturato una decina di poliziotti che – prima di essere definitivamente liberati – sono stati esposti pubblicamente durante un raduno di protesta nella zona nord della capitale.

La principale organizzazione indigena del movimento, la CONAIE, aveva interrotto una prima fase delle trattative con esponenti del governo (trattative avviate anche grazie all’intervento dell’ONU e della Chiesa cattolica) e aveva chiesto una ulteriore “radicalizzazione delle azioni di protesta”. Quasi un appello all’insurrezione. 

Poi le trattative erano riprese e al momento si registra questo primo risultato soddisfacente. 

Qualcosa bisogna poi dire su Lenin (solo di nome) Moreno. Eletto in quanto presunto continuatore  della Revolucion Ciudadana, in un primo momento godeva anche del sostegno della CONAIE che si era schierata, forse sbagliando in buona fede, contro il predecessore Correa. Ma ben presto – con un voltafaccia incredibile – Moreno era diventato lo strumento di ben altri interessi, quelli dell’oligarchia che da sempre detiene il potere in Ecuador.

La nuova stagione di feroce austerity (decisa in accordo con il FMI in cambio di un prestito nel marzo 2019 di 4 miliardi di dollari) costituiva il completamento della sua deriva neoliberista. Se il decreto 883 comportava la fine di sussidi per la benzina, in precedenza era già triplicato il costo del biglietto dell’autobus (il mezzo qui abitualmente utilizzato – si calcola al 90% – dalla popolazione) e quadruplicato quello degli alimenti base (riso, mais, patate..). Inoltre con i prossimi contratti si prevede un taglio degli stipendi dei lavoratori del 20%, il dimezzamento delle ferie (da 30 a 15 giorni all’anno) e l’obbligo per i dipendenti pubblici di “donare” una giornata di lavoro al mese.

Come si può facilmente comprendere le ragioni per ribellarsi non mancavano.