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Restituire alle parole il loro significato

Gli eventi drammatici di questi giorni, che hanno per protagonista il popolo curdo, oltre a suscitare riflessioni e dibattiti sulla politica internazionale in quell’area lontana da noi, ci interrogano e ci coinvolgono come credenti.

Ci chiamano in causa anche se abitiamo lontani, in un Paese apparentemente non compromesso in questo conflitto; e lo fanno anche nell’eventualità che siamo poco informati sulle vicende dolorose che interessano migliaia di uomini, donne e bambini; ci coinvolgono nonostante la dilagante indifferenza, la diffusa opinione che abbiamo diritto di  godere di tutto quello che ci circonda, sebbene ciò comporti dei costi altissimi nei termini della stessa sopravvivenza della Terra. Ci coinvolgono, perché la nostra vita quotidiana si basa su materie prime che arrivano da altri Paesi e su manodopera che a “casa propria” viene sfruttata per mantenerci nel benessere e nella ricchezza. Ma, soprattutto, siamo compromessi perché ci definiamo seguaci di Cristo, e sappiamo bene che qualsiasi cosa venga fatta ad uno dei nostri minimi fratelli e sorelle è stata fatta al Signore e che Egli ce ne chiederà conto.

Ci coinvolgono… ma questo non significa che dobbiamo vivere nell’angoscia ed essere incapaci di godere le gioie della vita, significa piuttosto che dobbiamo leggere la Storia anche con lo sguardo del credente: non possiamo illuderci che quello che releghiamo nella sfera della politica, e dei suoi necessari compromessi, non riguardi anche la nostra vita di fede e dunque coinvolga tutto il nostro essere.

Il primo passo da fare, quindi, è cercare la consapevolezza. La lucidità. Cioè, cercare di non farci manipolare, di non accontentarci del sentito dire o delle opinioni della maggioranza o delle personalità più carismatiche, ma di mantenere il nostro senso critico, che non nasce dai nostri pensieri, ma dalla preghiera e dalla inesausta ricerca della volontà del Signore. Una rivoluzione, vorrei dire una conversione del nostro sguardo, e di conseguenza del nostro pensiero.

A cominciare dalle parole. Oggi vengono utilizzate sui giornali, nei media, ma anche nelle nostre discussioni, parole che hanno perso la loro pregnanza, talvolta fino a stravolgerne il significato: quando, per esempio, chiamiamo Missione di pace un’azione che comporta morti e feriti, soprattutto tra i civili, che improvvisamente, in nome della Pace, si trovano senza casa, senza affetti, senza punti di riferimento (non è un caso, se il nome dell’operazione militare  con cui la Turchia ha invaso il nord est della Siria in questi giorni è appunto: “Primavera di pace”). Data la valenza formativa e performativa del linguaggio, questo significa che poco per volta la parola pace non richiamerà alle nostre menti, o a quelle dei nostri figli, un mondo di serenità, di relazioni pacifiche e solidali, ma porterà con sé anche l’idea di guerra, di violenza, di sopruso; e sarà lecito fare dei distinguo su chi abbia diritto alla pace e chi non possa desiderarla per sé e per i propri cari. Perché è evidente che chi muore sotto le bombe non ha diritto alla pace; ma anche chi sopravvive e ha la famiglia distrutta, la casa senza tetto, la scuola senza banchi, può domandarsi cosa significhi realmente la parola pace. E quindi il primo sforzo che le vicende contemporanee richiedono a tutti e tutte noi è quello di restituire alle parole il loro significato, senza farsi trascinare dalle mode linguistiche, senza ascoltare chi grida più forte, ma restando in contatto con il significato più profondo del nostro linguaggio.

E poi dobbiamo trovare la forza di vivere una vita integra e resa coerente dalla nostra fede: non una vita nella quale siamo lavoratori nei giorni feriali, padri e madri, figli e figlie, coniugi e amici nelle serate, e cristiani la domenica mattina, durante il culto. Dobbiamo avere il coraggio di contrastare la prassi, troppo diffusa, di accettare come inevitabile il mondo in cui viviamo: dall’abuso del consumo della plastica alla presenza di ricchezza e povertà, agli atti di crudeltà politica, la schiavitù o la tortura o la pena di morte, o l’esistenza delle guerre. La nostra militanza cristiana (e non a caso uso questa espressione) non può che renderci vigili in ogni situazione della vita: quando siamo al lavoro, quando cresciamo i nostri figli, quando facciamo una passeggiata. E dunque dobbiamo essere cristiani anche quando discutiamo di politica, perché è la politica che decide delle vite di milioni di uomini e donne. Essere figli di Dio significa, per chi crede, imitare Dio, Colui che ha protetto Caino, Colui che ci ha insegnato il gran comandamento, Colui che ha perdonato chi lo stava per uccidere. Essere figli di Dio significa prima di tutto prendersi curadi chi ci sta accanto, vicino o lontano che sia. E questo non solo nei sermoni, ma a partire dalla quotidianità più concreta e banale fino alle grandi scelte esistenziali. Se vogliamo dirci cristiani, dobbiamo assumere a modello Gesù, nessun altro uomo che Gesù.

Vivere da credenti, non significa vivere fuori dalla vita, la vita che ci è stata donata e all’interno della quale siamo chiamati ad operare, e quindi non abbiamo il diritto di creare una fittizia dicotomia tra la nostra fede e la nostra vita concreta. E dunque, interroghiamoci profondamente su cosa abbiamo poggiato la nostra esistenza, guardiamo con onestà dove è riposto il nostro tesoro e poi preghiamo affinché il Signore ci doni una vita illuminata dalla Sua Grazia.