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Rischiamo una nuova crisi del petrolio?

Lo scorso 14 settembre, un attacco condotto da alcuni droni in Arabia Saudita ha colpito lo stabilimento di Abqaiq, il più grande dell’azienda petrolifera statale Aramco, e l’area di estrazione di Khurais, vedendo dimezzata la produzione giornaliera saudita di petrolio, e provocando quindi una riduzione a livello globale pari al 5%. In quei giorni si immaginava che le quotazioni del petrolio, e di conseguenza i prezzi lungo tutta la sua filiera produttiva e commerciale, potessero crescere a grande velocità. Nonostante nei primi giorni l’impennata sia stata reale, la previsione si è finora dimostrata inesatta. Tuttavia, l’attacco subito dall’Arabia Saudita ha creato un nuovo clima di tensione tra Riyadh e il suo principale avversario regionale, l’Iran, accusato di essere responsabile dell’azione o comunque il suo mandante principale, anche a causa dell’immediata rivendicazione da parte dei ribelli yemeniti Houthi, sostenuti da Teheran.

Anche se i prezzi del petrolio oggi appaiono stabili, in una recente intervista al canale statunitense CBS, il principe ereditario saudita Mohammad Salman bin Salman ha dichiarato che il prezzo del petrolio potrebbe arrivare a “livelli inimmaginabili” se “il mondo non metterà un freno all’Iran”, sostenendo anche che una guerra regionale tra le due potenze avrebbe “conseguenze devastanti per l’economia mondiale”. Ma perché, a distanza di due settimane, l’allarme viene rilanciato? Secondo Nicola Pedde, direttore dell’Institute for Global Studies, «in questo momento c’è una situazione di grave pericolo e di grave difficoltà, tanto per il Paese quanto per le sorti del principe ereditario».

Quali sono questi pericoli, nell’immediato?

«La guerra in Yemen, prima di tutto, che ha preso ormai una piega catastrofica per i sauditi: la coalizione si è sfaldata con l’uscita degli Emirati Arabi Uniti e si è palesata una capacità sul terreno ormai ridotta al mero controllo delle frontiere. Dall’altra parte c’è stata anche la cattura di parecchi soldati della coalizione pochi giorni fa, e questo è stato pubblicizzato un po’ da tutti i media internazionali mostrando la debolezza del regno. A margine di tutto ciò c’è la posizione personale del principe, che è chiaramente indebolita anche sul piano interno dalla crisi economica generata in parte dalla guerra in Yemen e in parte dall’incapacità di fare programmi di lungo periodo capaci di generare una diversificazione economica».

Da questo discendono le recenti dichiarazioni. Ma come si traduce in merito all’Iran?

«Questa animosità nei confronti dell’Iran si è trasformata in una vera e propria guerra non combattuta, almeno non ancora, che ha prodotto come risultato un iperattivismo dell’Iran nella regione, una serie di attentati riconducibili in un modo o nell’altro alla Repubblica Islamica dell’Iran, e quindi il palesarsi di una vulnerabilità di tutta la regione che ha coinvolto anche la credibilità dell’Arabia Saudita. Gli ultimi episodi alle raffinerie dell’Arabia Saudita sono stati un colpo durissimo per la credibilità del sistema di difesa dei sauditi».

Nella narrazione giornalistica c’è molta attenzione rivolta verso l’Iran e alla sua natura destabilizzante, molta meno verso l’Arabia Saudita. Perché?

«Questa è una formula di competizione regionale che ha radici profonde: l’Iran da una parte, i Paesi arabi dall’altra, si sono sempre purtroppo percepiti in funzione di una volontà di primeggiare all’interno della dimensione regionale. In particolare, l’Iran è sempre stato l’attore principale, quello più forte e storicamente quello con più radici e tradizioni, ed è stato percepito dalla componente araba come un attore egemonico ed espansivo, mentre dall’altra parte l’Iran non ha mai guardato con particolare preoccupazione le monarchie del Golfo sino a quando c’è stato lo Shah. Con la rivoluzione e la successiva guerra, invece, si è entrati in questa dinamica di conflitto che ha portato le relazioni sempre sul filo del reciproco sospetto e di una conflittualità latente. È ormai una crisi cristallizzata da quasi mezzo secolo ed è sostanzialmente una incapacità di riuscire a definire obiettivi di lungo periodo all’interno di una dinamica regionale che solo apparentemente è divisa dalla religione, ma che in realtà è espressione di quelli che sono gli equilibri consolidati dei ruoli di forza».

In un’altra recente intervista, lo speaker del Parlamento iraniano Ali Larijani ha detto che Teheran, dopo le parole di Mohammad bin Salman, è aperta all’idea di un dialogo con l’Arabia Saudita. Su quali basi lo si potrebbe costruire?

«C’è da dire che, a differenza dei sauditi, gli iraniani hanno sempre guardato alla ricerca di una soluzione di dialogo con i sauditi. L’Iran non guarda all’Arabia Saudita come una minaccia esistenziale, non ha paura dell’Arabia Saudita e quindi ha avuto un approccio più razionale nel corso del tempo nei confronti del suo dirimpettaio regionale. Il vero problema in questo momento è però il fallimento del JCPOA, quindi le conseguenze dell’uscita unilaterale degli Stati Uniti dall’accordo con l’Iran e dall’impossibilità per Teheran di esportare petrolio. Se la dimensione regionale potesse agevolare la soluzione di questo problema, e quindi consentire all’Iran di rientrare nel circuito economico del sistema petrolifero, questo potrebbe diventare lo strumento attraverso il quale l’Iran sarebbe disposto a cooperare sul piano regionale».

Le accuse saudite quindi sono infondate?

«Diciamo che bisogna comprendere anche da parte araba i timori di un Iran percepito in modo egemonico, perché se è vero, conoscendo l’Iran, che non ha ambizioni territoriali, non ha ambizioni espansionistiche, è anche vero che questa sua capacità di giocare un ruolo ad ampio raggio nella regione, dalla Siria, al Libano, all’Iraq, allo Yemen, spaventa moltissimo i Paesi della regione. Tutto questo deve rientrare in una dinamica di dialogo regionale, assicurando i Paesi della sponda ovest del Golfo che l’Iran non ha mire egemoniche su quella regione. Questa dovrebbe essere la soluzione, ma deve transitare attraverso un dialogo regionale, non può essere più mediata dagli europei o dagli americani. Non è più il tempo di una negoziazione fatta da terzi e gestita in modo ambiguo: sono i Paesi della regione che devono riuscire ad arrivare ad una sintesi di queste dinamiche e a trovare una soluzione. Credo che la strada sia stata aperta: gli Emirati Arabi Uniti hanno fatto passi avanti in questa direzione e quindi, nonostante il generale clima di tensione, continuo a rimanere moderatamente ottimista sulle possibilità di un dialogo regionale».