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Spagna: il corpo del dittatore, tra memoria e politica

Il 24 settembre la Corte Suprema spagnola ha deciso che i resti del dittatore Francisco Franco, morto nel 1975, potranno essere esumati e spostati dal Valle de los Caídos (Valle dei caduti), un complesso monumentale piuttosto discusso, per ricollocarli in un posto più sobrio e meno celebrativo, come la tomba di El Pardo, nella periferia di Madrid.

La famiglia del dittatore avrebbe preferito che i suoi resti fossero trasferiti nella cattedrale di Almudena, nella capitale spagnola, ma il governo vuole evitare che la sua tomba sia in un luogo celebrativo. Quello dello spostamento dei resti di Franco è un tema che era stato sollevato nel 2018 dal primo ministro Pedro Sánchez con lo scopo di riaprire il dibattito in un paese in cui ancora oggi si discute dell’opportunità di cercare i corpi delle vittime della repressione franchista.

Steven Forti, docente di Storia contemporanea all’Università Autonoma de Barcelona, racconta che «il discorso era soprattutto legale, che ha a che fare anche con il diritto della famiglia dell’ex dittatore di decidere dove dovessero essere poi riposte le spoglie di Francisco Franco».

Partiamo da qui: che cosa non andava bene alla famiglia di Franco?

«C’era stata una prima opposizione, poi compresa l’impossibilità di mantenere Franco al Valle de los Caidos, quello che la famiglia proponeva era che le spoglie fossero trasportate nella cattedrale di Madrid, la Almudena, che trova in pieno centro, tra l’altro a poche centinaia di metri dal palazzo reale. Anche su questo c’è stato un dibattito a livello giudiziario. Il governo spagnolo voleva che le spoglie fossero trasportate in quella che è una tomba costruita dallo stesso Franco negli anni sessanta in una zona periferica di Madrid, la zona del Pardo, tra l’altro molto vicina a quella che è stata la residenza del dittatore durante gli anni del regime franchista, e alla fine pare sarà così».

Naturalmente la lettura di questa vicenda non si esaurisce alla mera questione legale. Lei afferma che questa è anche la storia di un’anomalia. Quale?

«L’anomalia spagnola per quanto riguarda la memoria storica, il diritto delle vittime della guerra civile e della repressione della dittatura franchista dal 1936 in avanti, è enorme. C’è un dato che credo spieghi molte cose: la Spagna è il primo Paese in Europa e il secondo Paese a livello mondiale, dopo la Cambogia, per numero di persone in fosse comuni ancora non riesumate e riconosciute».

Inoltre il tema della memoria ha un grande valore politico. Possiamo ripercorrere una parte di questa battaglia, condotta negli ultimi anni?

«La scelta del governo di Pedro Sánchez di portare avanti questa battaglia si collega in parte con ciò che una decina di anni fa aveva fatto il precedente esecutivo socialista, quello guidato da José Luis Rodríguez Zapatero, che dopo anni di silenzio, di oblio, di una certa volontà, come si diceva soprattutto da parte della destra, di non aprire vecchie ferite, aveva finalmente approvato la legge per la memoria storica che qualcosa aveva fatto. Per esempio, per quanto i fondi stanziati non fossero molti, aveva permesso di aprire le fosse comuni e procedere lentamente al riconoscimento di centinaia e poco a poco migliaia di vittime. Dall’altra, però, rimaneva rimaneva il nodo del Valle de los Caidos, che è un monumento celebrativo della stessa dittatura e della figura di Franco, per quanto nasca, nella volontà del franchismo, come ricordo delle vittime della guerra civile. Non dimentichiamoci che erano stati i prigionieri repubblicani della Spagna repubblicana sconfitta dal franchismo a costruire, durante i lavori forzati, questo monumento che diventa poi anche una celebrazione dello stesso Franco. Quello che Sánchez fa nell’estate del 2018, appena arrivato al governo in forma abbastanza inattesa con una mozione di sfiducia vinta contro il premier conservatore Rajoy e anche visto che sta governando in minoranza, è anche prendere in mano questa battaglia perché gli permette di avere visibilità mediatica e di connettere con un elettorato di sinistra che in questo momento, o almeno l’anno scorso, stava votando alla sinistra dei socialisti, ossia Podemos. C’è quindi anche una scelta un po’ elettoralista da parte di Sánchez, su questo non ci piove. Però di certo è anche una scelta coraggiosa e doverosa».

Abbiamo parlato di memoria storica in termini di ricordo delle vittime, riconoscimento e riscoperta delle vittime tanto della guerra civile quanto della dittatura. Tuttavia, l’impressione è che la Spagna, un po’ come l’Italia, abbia fatto poco i conti con la figura del dittatore e con l’esperienza della dittatura. È un’impressione corretta?

«Credo di sì. Metterei però in luce alcune differenze tra l’Italia e la Spagna, innanzitutto cronologiche. La dittatura in Spagna finisce alla metà degli anni Settanta, in Italia trent’anni prima. Dall’altra anche la maniera in cui si esce dalla dittatura che non è un fatto secondario anche per quanto riguarda poi i miti di fondazione della nuova tappa democratica, è una cosa che ha direttamente a che fare con la memoria storica».

Che cosa intende?

«In Italia Benito Mussolini finisce fucilato e appeso a testa in giù a piazzale Loreto a Milano e si tiene referendum tra monarchia e repubblica, quindi esiste il mito fondativo dell’antifascismo e della Resistenza. Dall’altra, invece, abbiamo una transizione che senza ombra di dubbio ha permesso di uscire da una dittatura di quarant’anni e di entrare in una tappa democratica, ma che non non ha mai fatto i conti con i crimini della dittatura e della guerra civile precedente. Ricordiamo che gli storici stimano tra 100.000 e 200.000 vittime della repressione franchista. In Italia c’è stato un numero enorme di vittime, ma nel contesto della seconda guerra mondiale e della guerra civile, in Spagna abbiamo avuto una lunga dittatura, la repressione e poi c’è stata una legge di amnistia prima ancora dell’approvazione della Costituzione, parliamo del 1976-1977, che ha reso impossibile la condanna dei crimini della dittatura franchista. Questo ha portato al fatto che negli anni successivi da un lato molte persone abbiano in un certo qual modo accettato un minimo comune denominatore, quello dell’uscita dalla dittatura e la transizione democratica, accettando di superare quello che è successo nel passato, ma questo non è stato risolto. Allora io credo che da questo punto di vista la Spagna abbia fatto molto meno i conti rispetto all’Italia con il proprio passato dittatoriale, le violenze, la repressione e le morti del franchismo».

Ci sono dei passi avanti in questo senso?

«Dal punto di vista storico e dal punto di vista associativo ci sono stati, soprattutto negli ultimi vent’anni, dei lavori importanti, che hanno permesso di fare dei passi in avanti rilevanti proprio anche per la spinta della società civile. Prima il governo Zapatero negli anni tra il 2004 e il 2010, ora il governo Sánchez, hanno portato avanti questo tipo di politiche sulla memoria storica. Negli anni tra la fine dei Novanta e i primi anni Duemila sono state invece le associazioni di cittadini che si dedicavano alla memoria storica in ambito locale, a Burgos, in Andalusia, in Catalogna, che hanno messo al centro dell’attenzione mediatica queste questioni, hanno chiesto dei risarcimenti politici e morali per i familiari delle persone che erano state uccise durante la dittatura o durante la guerra civile. Il governo socialista di Zapatero aveva poi elaborato una legge di memoria storica che poteva essere molto più ampia, finanziata molto meglio, poteva toccare alcuni nodi che si è preferito non toccare, però i conti con il passato sono stati fatti relativamente molto poco dalle istituzioni spagnole, sono stati fatti positivamente, ma c’è ancora molto lavoro da fare, in ambito storiografico, mentre invece l’ambito associativo è stato forse quello più interessante e più importante per permettere un miglioramento istituzionale, politico e di dibattito pubblico».