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Vi ricordate di Flint?

Chi ha visto il documentario di Michael Moore Fahrenheit 11/9, incentrato sull’elezione del presidente Trump, ricorderà il caso di Flint, città del Michigan di 100.000 abitanti. Qui è nato lo stesso Moore, che già nel suo primo documentario di successo, Roger and me (1989) aveva documentato gli effetti devastanti della chiusura degli stabilimenti della General Motors: 35.000 posti di lavoro persi e una catena viziosa di emigrazione, disoccupazione e delinquenza crescenti, che l’hanno resa una delle città più pericolose degli Usa.

Solo chi è troppo povero per andarsene rimane in quella che nei decenni passati era una città prospera grazie all’industria automobilistica: siamo a un centinaio di km da Detroit, e nel 1908 la General Motors vi aveva aperto importanti stabilimenti. La crisi degli anni Ottanta si ripercuote pesantemente sui bilanci comunali; Flint viene affidata a un commissario straordinario inviato dal Governo che nel 2013, per risparmiare sull’approvvigionamento idrico (si parla di milioni di dollari), decide di “staccarsi” dal sistema idrico di Detroit e costruire un nuovo impianto per attingere direttamente dal vicino lago Huron. Nel frattempo, la città userà le acque dal fiume da cui prende il nome. 

Fin da subito (siamo nella primavera del 2014) gli abitanti cominciano a lamentare il cattivo sapore dell’acqua, il colore giallastro, ma le autorità garantiscono che l’acqua è sicura, e che la colpa è delle tubature delle case vecchie.

Purtroppo, che il problema stia nelle tubature non è un’invenzione, ma è tuttol’impianto della città a essere compromesso: i vecchi tubi di piombo, non sostituiti da un’amministrazione “con l’acqua alla gola”, cominciano a corrodersi e a rilasciare veleno. Questo perché l’acqua del fiume Flint, grazie a decenni di sversamenti dalle industrie, ai fertilizzanti impiegati nell’agricoltura e alle tonnellate di sale usate in inverno per evitare che le strade si ghiaccino, sono diventate corrosive. 

Se ne accorgono (e prendono provvedimenti, tornando ad allacciarsi all’acquedotto di Detroit) alla General Motors, quando cominciano a rendersi conto che l’acqua danneggia i motori.

Ma, nonostante la cittadina convochi una riunione pubblica per fare emergere il problema (siamo già nel 2015), e una ricerca indipendente, realizzata da gruppi di residenti, ricercatori della Virginia Teche dalla American Civil Liberties Union of Michigan, un’organizzazione per la difesa dei diritti civili, stabilisca il nesso tra acqua alcalina e corrosione dei tubi, il dipartimento sanitario comunale assicura che l’acqua è sana. 

Altri ricercatori sostengono che la corrosione derivi dal fatto che nell’acqua del sistema idrico di Flint è stata aggiunta una notevole quantità di cloro dopo il ritrovamento di batteri coliformi fecali: qualunque sia la causa, resta il fatto che i tubi vengono danneggiati irreversibilmente e la città potrebbe essere costretta a spendere un miliardo e mezzo di dollari per sostituirle.

Ma il problema più grave sono i danni alla salute dei cittadini, che cominciano ad avere eruzioni cutanee, a perdere i capelli, e quel che è peggio, il piombo si deposita nel sangue e negli organi, portando danni a lungo termine. I più vulnerabili sono i bambini, nei quali viene compromesso il normale sviluppo mentale e fisico. Gli effetti potrebbero non essere visibili prima di 10-15 anni e questo, insieme al fatto che la contaminazione potrebbe durare ancora a lungo, rende impossibile prevedere gli effetti di questa crisi.

Oggi, e sono passati più di cinque anni, a dimostrare che la crisi è ancora in atto e che occorre un’azione di sensibilizzazione non c’è soltanto dal film di Michael Moore, ma da un nuovo documentario appena presentato, proprio a Flint, giovedì scorso 12 settembre. Flint: the Poisoning of an American City, questo il titolo, è stato prodotto dalla Barnhard Film, impegnata nel «dare voce a storie che non sono state ancora ascoltate e nello stimolare l’impegno collettivo su temi rilevanti e d’attualità» e sostenuta finanziariamente dalla Presbyterian Disaster Assistance (Pda). Programma della Chiesa presbiteriana degli Usa dedicato all’aiuto nelle emergenze e negli eventi catastrofici (terremoti, inondazioni, emergenze umanitarie come quella del popolo Rohingya) opera a livello internazionale ma anche nazionale, insieme a partner quali ACT Alliance (Action by Churches Together), Nazioni Unite, World Food Programme (WFP dell’Onu), Croce Rossa. Per quanto riguarda la crisi idrica di Flint, per esempio, la Pda è a fianco della popolazione distribuendo bottiglie d’acqua e filtri, facendo formazione sui rischi del piombo, individuando case e famiglie a rischio, lavorando con gli ospedali locali e con le persone malate, fornendo assistenza spirituale.

La domanda da cui parte il documentario è “come questo sia potuto succedere negli Usa” e vuole servire come avvertimento per il resto del Paese, considerando (come si legge sul sito del film) che secondo un recente rapporto 5300 città violano le regole federali sul piombo, e una ricerca pubblicata da USA Today ha trovato un tasso eccessivo in quasi 2000 sistemi idrici pubblici in tutti gli Stati americani.

Come spiega lo stesso regista David Barnhard nell’intervista prodotta per la stampa, e le sue parole dovrebbero farci pensare, ciò che è accaduto a Flint non è una “crisi” che riguarda solo Flint, ma tutti gli Usa, e soprattutto non è improvvisa: «Le sue radici sono un secolo di contaminazione/abuso ambientale, di degrado delle infrastrutture e di un sistema che ha privilegiato alcuni ed emarginato altri per motivi di razza e di ceto». Come osserva il produttore Scott Lansing, infatti, l’aggravante di questo caso è il «razzismo istituzionalizzato […] incorporato in una leadershipaziendale di successo”: il 56,6% della popolazione cittadina è afroamericana. 

Nel film (che sarà presentato in altre città e dal 5 novembre disponibile sul web su piattaforme on demand) sono presenti interviste con esperti ambientali e una trentina di residenti (genitori, operatori sociali, educatori…). Tra questi anche il pastore metodista Greg Simmons (United Methodist Church) e la pastora presbiteriana Desiree Lawson, che commenta: «Quando si parla di “crisi” in genere si intende un punto di svolta, quando si arriva a un punto così basso che le cose devono cambiare per forza: ma noi siamo in una crisi? Per la gente di Flint è diventato un modo di vivere […]  Siamo in un periodo in cui sembra che le cose più orrende e disumanizzanti siano normalizzate e diventate quotidiane».

Per questo assume un’importanza anche simbolica la scelta del luogo per la prima, il Capitol Theater di Flint, un teatro da 1500 posti riportato nel 2017 all’originario splendore, simbolo dell’auspicata rinascita della città dopo decenni di decadenza. Il luogo giusto per presentare al mondo un progetto che nasce dalla volontà di mantenere viva l’attenzione su questo caso, tuttora irrisolto, e «sulla forza di questa comunità che ha sopportato negli ultimi cinque anni condizioni inimmaginabili» (si legge sul sito della United methodist Churchqui).

 

Foto: il regista David Barnhard (PcUsa)