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Capolinea Afghanistan. E ora?

Durante un evento dedicato alle vittime degli attentati dell’11 settembre, nel diciottesimo anniversario della giornata che ha cambiato il nostro mondo, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha scritto la parola “fine” sui colloqui di pace tra Washington e i leader talebani, contro cui nel novembre del 2001 era stata lanciata una guerra che non è ancora conclusa.

Pochi giorni prima, il 7 settembre, con tre tweet lo stesso Trump aveva chiuso oltre un anno di negoziati svolti a Doha, in Qatar, rivelando che i leader talebani avrebbero dovuto incontrarlo a Camp David, sede di numerose conferenze e negoziati internazionali. La causa va cercata in un attentato suicida firmato proprio dai talebane a Kabul nel quale, tra le 12 vittime, era stato ucciso un soldato statunitense. «Se non riescono a concordare un cessate il fuoco durante questi importantissimi colloqui di pace e uccidono addirittura 12 persone innocenti, probabilmente non hanno il potere di negoziare comunque un accordo significativo», aveva scritto il presidente. Due giorni dopo la decisione è stata ripetuta e rafforzata, dicendo che i colloqui erano «morti». Infine, l’evento dell’11 settembre e la definitiva chiusura.

Da Doha, un portavoce talebano ha criticato Trump per la decisione di annullare il dialogo, affermando che le sue scelte costeranno ancora più vittime in quella che è diventata la guerra più lunga della storia statunitense.

I colloqui tra Stati Uniti e talebani erano iniziati nell’ottobre 2018 e si erano concentrati su quattro questioni principali: il ritiro delle forze statunitensi e della Nato, un dialogo intra-afgano, un cessate il fuoco permanente e una garanzia che i talebani non avrebbero consentito ai combattenti stranieri di usare l’Afghanistan come base per condurre attacchi al di fuori del paese, una delle cause ufficiali dell’attacco condotto nel 2001 dagli Stati Uniti nel Paese.

La politica estera statunitense si sta ridisegnando in questi giorni: le divergenze nella strategia afghana, infatti, sono state citate come causa del licenziamento di John Bolton, terzo consigliere per la Sicurezza nazionale della presidenza Trump. Bolton, contrario da sempre al processo di pace, lascia nel momento in cui la sua visione da “falco” è diventata realtà. Non è l’ultimo paradosso dello scenario afghano.

Ma soprattutto, che cosa rimane ora? I colloqui non sono per davvero morti e potrebbero essere ripresi nel prossimo futuro, ma ogni giorno che passa porta con sé più violenze e più attacchi. L’Afghanistan, in realtà, pur essendo diventato marginale nella narrazione dei conflitti globali, vive uno dei periodi più violenti della sua storia recente, con centinaia di civili uccisi da bombe e attentati suicidi rivendicati da varie sigle attive nel Paese. Inoltre, secondo i dati delle Nazioni Unite, gli attacchi aerei statunitensi e del governo afghano contro le posizioni dei gruppi paramilitari tra maggio e agosto sono aumentati di circa il 60% rispetto al 2018, che già era stato l’anno più sanguinoso per le morti civili nel conflitto afghano, raccogliendo a sua volta il testimone dal 2017.

A questo punto, al centro della scena torna il governo afghano e il suo presidente, Ashraf Ghani, che insiste nel voler tenere le nuove elezioni presidenziali il 28 settembre, come programmato, anche in assenza di un cessate il fuoco a lungo termine con i talebani. Ghani e i suoi alleati sono rimasti ai margini dei colloqui di pace, e ora avranno vita facile nel ritenere di aver avuto ragione quando affermavano che l’amministrazione Trump stava delegittimando il governo – e per contro legittimando i talebani come interlocutori – pur di mettere fine alla propria guerra. Per Ghani è l’occasione di rilanciarsi, ma la sfida che ha di fronte è durissima: elaborare una strategia realistica e creare un consenso nazionale che possa portare a un accordo tra governo e oppositori.

La campagna elettorale è già partita, caratterizzata da dubbi e sospetti, ma soprattutto dall’assenza di prospettive politiche: gli avversari di Ghani lo accusano da sempre di utilizzare le risorse del governo per falsare la competizione, mentre i talebani, che godono di ampio consenso in diverse parti del Paese e in altre usano metodi intimidatori, hanno invitato gli afghani a boicottare il voto.

Inoltre, mentre i leader politici talebani sedevano al tavolo di Doha con gli Stati Uniti, in Afghanistan si intensificava la loro azione militare, che ha colpito sempre più duramente le forze di polizia e i civili. L’azzardo dell’amministrazione Trump, quello di chiudere il conflitto indipendentemente dal prezzo politico da pagare, si è trasformato in un nuovo gioco, i cui contorni sono tutti da chiarire. Mentre la guerra e la politica afghana si muovono verso nuovi territori, sconosciuti come i precedenti, nei prossimi mesi la popolazione capirà quale prezzo dovrà pagare.