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Bombe a grappolo: meno incidenti, ma molta strada è ancora da fare

Dal 2 al 4 settembre si tiene a Ginevra, in Svizzera, il meeting degli Stati parte alla Convenzione sulle munizioni cluster. In occasione di questo nono incontro, la Cluster Munition Coalition (CMC), un movimento della società civile internazionale che si batte contro l’uso, la produzione, lo stoccaggio e il trasferimento di munizioni a grappolo, presenta l’edizione 2019 del Cluster Munition Monitor, il rapporto annuale dedicato alle bombe a grappolo e che analizza tanto la produzione e il commercio di queste armi, quanto l’uso in scenari di guerra.

A livello globale, si legge nel rapporto, sono stati registrati 149 nuovi incidenti da munizioni cluster, una cifra che conferma la tendenza registrata negli anni precedenti, nei quali si è scesi dai 971 eventi del 2016 ai 289 del 2017. Le rilevazioni hanno riguardato Afghanistan, Iraq, Laos, Libano, Siria, Sud Sudan, Ucraina, Yemen e la regione contesa del Nagorno-Karabakh, luoghi in cui sono stati registrati incidenti causati da residuati delle guerre in corso o da quelle del passato.

Oggi, si ritiene che nel mondo siano ancora 26 i Paesi contaminati da questi ordigni, tra cui 12 Stati Parte alla Convenzione sulle Munizioni Cluster.

Oltre al calo generale dei cosiddetti “incidenti” – termine su cui sarebbe opportuno discutere – ci sono alcune buone notizie: per la prima volta dall’inizio della guerra in Yemen, nel marzo del 2015, il Monitor non riporta nuovi casi di utilizzo di munizioni cluster nel Paese, anche se i residuati degli  ultimi anni continuano a causare vittime. Per contro, la Siria rimane l’unico Paese in cui questo genere di ordigni viene ancora attivamente utilizzato, in questo caso da parte della Russia e delle forze governative di Damasco. Lo scorso anno nel Paese sono stati registrati 80 “incidenti”, il dato annuale più basso dal 2012, anche se i ricercatori ritengono che i numeri siano probabilmente più alti, vista la difficoltà d’accesso al Paese in molte aree, soprattutto in quelle contese. Giuseppe Schiavello, direttore della Campagna Italiana contro le mine Onlus, ricorda che «quando il Monitor registra e dà notizie rispetto alle vittime si basa su informazioni documentate, di cui si può sempre verificare la fonte. In alcuni casi, come la Libia, non possiamo accedere a fonti indipendenti per poter certificare l’utilizzo di queste armi. Ma diciamo che l’esperienza ci fa credere che verremo a sapere anni dopo che vengono in ogni caso sia utilizzate e ritrovate bombe di questo tipo».

Secondo la Campagna Italiana contro le mine Onlus, comunque, il calo degli incidenti e delle vittime rappresentano, oltre che una buona notizia, anche il segno che la pressione internazionale e l’adesione alla Convenzione sulle Munizioni Cluster rappresentino strumenti efficaci per contrastare la diffusione e l’uso di queste armi, definite appunto “non convenzionali”.

Per via della loro natura di arma che colpisce i civili in modo indiscriminato e per la dimensione di persistenza, le bombe a grappolo vengono normalmente associate alle mine antipersona come cause di guerre “sporche”, in cui le regole di guerra vengono sistematicamente violate. Tuttavia, mentre tutti conoscono le mine antipersona, le bombe a grappolo risultano meno note, e forse anche per questo il loro impatto psicologico è minore.  «Le bombe a grappolo – spiega Schiavello – contengono una serie di submunizioni. Una “bomba madre”, una bomba aerea per esempio, contiene fino a 200, 220 submunizioni». Queste bombe, aprendosi in aria, rilasciano centinaia di piccole submunizioni, piccole in scala militare, ma comunque normalmente pari a 700 grammi di esplosivo, e molte di queste rimangono inesplose sul territorio, sia per fattori tecnici sia per le condizioni del terreno su cui si depositano. Visto che a quel punto possono esplodere al minimo tocco o spostamento, le submunizioni inesplose si comportano come mine antipersona. «Sono addirittura più distruttive delle mine – chiarisce Giuseppe Schiavello – perché la percentuale delle inesplose è molto alta, ma soprattutto sono molto instabili, e quindi diventano un pericolo costante per la popolazione civile».

Fino al 2008, era rimasta senza risposta una questione essenziale, ovvero la natura giuridica dell’uso di queste armi. Con l’adozione della Convenzione sulle munizioni a grappolo, firmata il 30 maggio di 11 anni ed entrata in vigore il 1 agosto 2010, ha stabilito il divieto per ogni Stato aderente di “impiegare munizioni a grappolo”, di “sviluppare, fabbricare, acquisire in altro modo, depositare, conservare o trasferire a chiunque, direttamente o indirettamente, munizioni a grappolo” e di “assistere, incoraggiare o indurre chiunque a impegnarsi in qualsiasi attività vietata a uno Stato Parte ai sensi della presente Convenzione”. Uno strumento che sta funzionando, ma la cui missione non è ancora compiuta. «La cosa più preoccupante – chiarisce infatti Giuseppe Schiavello – è che alcuni paesi, sedici, che sono fuori dalla convenzione e producono cluster bombs, non hanno nessun obbligo di cessare la produzione in futuro e credo che questo sia la cosa più grave». Si tratta quindi di un percorso che non si può basare soltanto sugli strumenti di legge, ma che si può appoggiare all’esperienza e ai risultati delle campagne internazionali contro le mine antipersona. In quel caso, uno strumento che aveva dato ottimi risultati era stato quello della stigmatizzazione internazionale per l’uso di un’arma che ha effetti indiscriminati sui civili. «Nessuno dei Paesi che produce queste armi – prosegue Schiavello – vorrebbe essere additato in qualche modo come responsabile dei morti di civili. Abbiamo la possibilità di intervenire anche attraverso leggi nazionali che colpiscono finanziamenti a queste aziende attraverso gli strumenti finanziari di rito, come azioni, obbligazioni, prestiti: tutto quello che può in qualche modo supportare la produzione di queste aziende deve essere proibito. La nostra legge di ratifica già prevede che siano vietati i finanziamenti, mentre un’altra è in discussione e adesso è ferma alla Camera dei Deputati, nella Commissione Finanze. Questa prevede proprio delle misure specifiche, perché sappiamo che le misure finanziarie sono piuttosto complesse. Questo, insieme a tutto il lavoro diplomatico, al tentativo di universalizzazione del trattato fa sì che ci siano elementi di pressione tali da bloccare un commercio e una produzione».