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Quale fu l’italiano degli esuli religiosi

Mi arrabbiai non poco nel leggere le parole che un noto scrittore torinese riservava per la Bibbia di Diodati, da alcuni anni “insignita” della pubblicazione nei “Meridiani” di Mondadori1. Il salace scrittoreriteneva alcune espressioni di Diodati orripilanti. Poi mi sono reso conto dell’origine della mia indignazione – che peraltro qui confermo. La grande traduzione di Diodati non aveva, per me, un valore solo letterario, ma coinvolgeva la mia militanza evangelica, la mia adesione a un “mondo” spirituale e in questo caso anche poetico. Insomma, un autore “classico”, che però al tempo stesso era “uno di noi”.

In realtà la lingua dei traduttori italiani della Bibbia, e degli autori di opere di edificazione, di sermoni e quant’altro, nel momento in cui viene a far parte dell’attività editoriale e della cultura, deve sottoporsi al giudizio dei critici (e, all’epoca, anche a quello dei potenziali acquirenti). È normale, quindi, che tale giudizio possa variare, ed è, anzi, auspicabile, che esso si formi sulla base di veri studi critici. Per questo è tanto più importante un libro come quello di Franco Pierno* dedicato all’uso dell’italiano che fecero gli esuli per motivi religiosi nel Cinquecento.

Costruito con una serie di studi di origini diverse, il libro, che l’autore avrebbe voluto far uscire nel 2017, anno del Cinquecentenario della Riforma, muove da una constatazione: mentre è cresciuto nel tempo l’interesse degli studiosi della nostra lingua per i rapporti fra quest’ultima e la cultura cattolica, «invece, gli studi che si sono occupati del rapporto tra lingua italiana e Riforma protestante si sono ritagliati uno spazioancora limitato». Allora, non si può che muovere dal Cinquecento: «È questa l’epoca, infatti, in cui, da una parte, certi settori della società della Penisola, del mondo ecclesiastico o meno, sentirono ed espressero una rinnovata esigenza di trasmettere (e diffondere) la Parola rivelata nelle Scritture in lingue comprensibil ai più; dall’altra, nello stesso periodo, il dibattito sul tipo di volgare da utilizzare andò assumendo dimensioni sociali e culturali di larga scala».

Non mancano i riferimenti agli studi che affrontano la questione della Riforma in Italia e i suoi prodotti editoriali: da Carlo Dionisotti a Delio Cantimori a Massimo Firpo; ma si trovano anche quelli degli studiosi valdesi, da Enea Balmas a Franco Giacone e a Susanna Peyronel. Ma il focus del volume è il rapporto tra lingua italiana e un doppio riferimento: la condizione di esule (i riformati italiani dovettero prendere la via dell’esilio, principalmente in Svizzera e in particolare a Ginevra) e la conseguente “autopercezione identitaria”. Condizioni che determinarono le scelte di produzione e diffusione di materiali librari (in primo luogo traduzioni della Bibbia) nella lingua d’origine, stampati necessariamente all’estero. Una lingua italiana che intanto andava modificandosi in patria, come capiterà per tutte le successive generaioni di emigrati, fino alla seconda metà del ‘900.

I casi più illustri che vengono descritti sono quelli della Bibbia di Brucioli, e naturalmente dello stesso Diodati, che peraltro appartiene piuttosto al secolo successivo: si dimostra qui come non l’improvvisazione o il gusto per il grand-guignolfossero alla base delle scelte linguistiche delle traduzioni dell’epoca. Un libro utile, per conoscere, sotto l’egida di un altro sguardo scientifico, quelle pagine che amiamo per il loro contenuto spirituale.

* F. Pierno, La parola in fuga. Lingua italiana ed esilio religioso nel Cinquecento. Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2018, pp. IX-185, euro 28,00.

1. La Bibbia di Diodati. 3 voll. Milano, Mondadori, 1999.

2. G. Ceronetti, Piccolo inferno torinese. Torino, Einaudi, 2003, p. VI.