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Le responsabilità di chi fa informazione

In occasione della presenza a Torre Pellice (To) di Maria Grazia Mazzola, giornalista d’inchiesta Rai, le abbiamo rivolto alcune domande. 

Qual è lo stato di salute dell’informazione nel nostro paese?

«È in uno stato moribondo perché l’informazione, attraverso giornali e telegiornali – tranne alcuni esempi illuminati – è ripiegata sulle opinioni dei partiti e dei leader politici e non sui fatti. Il mio non è un discorso né di destra né di sinistra, la mia è una constatazione dei fatti: quando un giornalista assume come punto di riferimento le dichiarazioni di un leader politico ha già deformato e mistificato la realtà». 

Se dunque l’informazione è fortemente condizionata dai partiti politici, come invertire questo trend? 

«Bisogna aprire gli occhi. Quando un giornale mostra i barconi pieni di migranti, evitando di raccontare la situazione sociale, politica, economica, culturale del paese dal quale tante persone fuggono, avviene un “salto logico” e la gente interpreta l’arrivo dei barconi come un’invasione. I recenti dati Eurispes confermano che gli italiani hanno una visione deformata del fenomeno migratorio, anche a motivo della disinformazione che sta caratterizzando il nostro paese». 

Da dove partire?

«Dalla responsabilità personale di chi fa informazione. Occorre mettere a fuoco chi è il giornalista, che non è mero “megafono” della politica. Il giornalista deve assumersi la responsabilità di correggere i linguaggi, non deve assumere come proprio il linguaggio di odio di certi leader politici, né il punto di vista demagogico di altri leader politici. Il giornalista deve avere un linguaggio imparziale, assumendosi la responsabilità di svolgere un servizio pubblico. Questo è più che mai urgente perché stiamo assistendo alla deresponsabilizzazione dei giornalisti».

Perché i giornalisti stanno abdicando a questa assunzione di responsabilità?

«Perché c’è un prezzo che non tutti sono pronti a pagare. Faccio un esempio: se nella periferia di Roma scoppia una rivolta e io giornalista mi faccio complice del linguaggio d’odio della parte in rivolta, sto operando un falso, sto compiendo un’operazione di disinformazione. Se invece, a partire  dal mio senso di responsabilità, registrando la realtà complessa di quella situazione, interagendo con essa criticamente, allora sarò fedele testimone della realtà, non è un “megafono”. Questa assunzione di responsabilità spesso ha un prezzo che va pagato, in termini di carriera bloccata, di isolamento, di attacchi. Oggi chi ricerca la verità è un sovversivo. Sono tanti in Italia i giornalisti che hanno ricevuto attacchi, minacce per il proprio lavoro serio di ricerca della verità; per guardare non troppo lontano dal nostro paese, i giornalisti slovacchi Jàn Kuciak, Martina Kušnirova, e la maltese Daphne Caruana Galizia, sono stati assassinati perché indagavano sul nodo politica e mafia». 

Cosa fare?

«Il mio appello è alla responsabilità dei giornalisti che svolgono una funzione di servizio pubblico: occorre rimboccarsi le maniche. Il giornalismo è qualcosa di alto, di importante, i fatti vanno raccontati tutti! Purtroppo invece su tante questioni il nostro paese è al buio. Liddove non c’è il racconto della realtà, ma becera propaganda, non c’è esercizio pieno della democrazia. Entriamo nel campo delle fake news, che non sono solo notizie “false”, ma notizie manipolate, costruite ad hoc. Il giornalismo investigativo, il lavoro di inchiesta va sostenuto perché è il sale della democrazia. Dobbiamo aprire gli occhi e tenere accese le lampade in mano, non ci possiamo permettere il lusso di spegnere una luce nel buio pesto che ci circonda. In Italia non c’è seria informazione europea, mondiale, le mafie sono uscite dalla nostra narrazione. Se vogliamo rimanere svegli, attenti, dobbiamo avere come riferimento gli altri paesi, dobbiamo chiederci cosa sta succedendo in Africa, in Asia, negli Stati Uniti e fare esercizio di ricerca della verità. Come mai non vediamo le inchieste sulle condizioni dei popoli nel mondo come fa il New York Times? Il nostro riferimento è la condizione dei popoli nel mondo, non il nostro ombelico. L’Italia è un puntino nella geografia del mondo. Povero quel popolo che vive ripiegato su se stesso, rischia di smarrirsi in mare aperto senza bussola». 

Foto di Pietro Romeo