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Afghanistan, quanto manca all’accordo tra Stati Uniti e Talebani?

Il 19 agosto del 2019 l’Afghanistan ha celebrato i cent’anni dall’indipendenza dal Regno Unito. Tuttavia, sono davvero pochi i motivi per celebrare l’anniversario in un Paese che vive in guerra da quarant’anni, cioè da quando nel 1979 l’Unione Sovietica tentò di conquistare il Paese. Da allora, dopo dieci anni di conflitto, gli anni Novanta furono caratterizzati dalla guerra civile, culminata poi nel 2001 con l’intervento della Nato, diciott’anni a novembre.

Una guerra lunga, la più lunga mai combattuta dagli Stati Uniti, che ancora oggi provoca più morti e feriti del conflitto in Siria. Proprio in occasione dell’anniversario, dieci esplosioni hanno colpito Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, causando almeno ottanta feriti, mentre la sera di sabato 17 a Kabul un attentato durante un matrimonio ha provocato 63 vittime, indicando che nessun luogo del Paese è per davvero sotto controllo.

Duemila kilometri a sud-ovest, intanto, Stati Uniti e Talebani stanno da mesi negoziando un accordo che punta a mettere fine al conflitto armato tra le due parti, ormai diventato una guerra tra fazioni disordinate e senza reali obiettivi territoriali. Secondo il New York Times, le due parti sarebbero vicinissime a un accordo di pace preliminare, che prevede tra gli altri punti il ritiro delle truppe Nato, soprattutto statunitensi, dal Paese. «Sulla carta – racconta Francesca Manenti, analista senior per Asia e Pacifico del Ce.S.I. (Centro Studi Internazionali) – sono stati fatti effettivamente dei passi in avanti, perché quelli che erano solo dei punti generici fino a qualche mese fa, da quanto emerso negli ultimi giorni sembrano invece essere stati definiti. Si ha teoricamente una road map verso quello che dovrebbe essere una storica intesa tra gli Stati Uniti e la leadership politica dei talebani. Quello che è sulla carta, però, poi non è detto che possa essere effettivamente e concretamente realizzabile e soprattutto probabile».

Quali sono i nodi principali per passare dall’accordo teorico alla pratica?

«Innanzitutto il ritiro delle truppe, non solo statunitensi ma di tutta la Nato: secondo la volontà dei Talebani andrebbero ritirate nel corso di pochi mesi, ma da un punto di vista anche logistico riuscire a ritirare quelli che sono migliaia di uomini da un teatro come l’Afghanistan, in cui per essere stati così tanto tempo è stato necessario costruire una rete, delle basi e una rete logistica di un certo tipo, sarebbe comunque una difficile soluzione. Andare a negoziare la lunghezza del ritiro delle truppe e quindi le tempistiche del ritiro delle truppe potrebbe portare le due parti ad allontanarsi nuovamente.

Il secondo grande punto di domanda, per quanto riguarda i punti in discussione tra le parti, è la garanzia che i talebani riusciranno a evitare che l’Afghanistan diventi una testa di ponte per nuovi attacchi terroristici sia verso l’Occidente sia nella regione. Questo può essere complicato per due motivi: da una parte i legami tra i Talebani e la rete qaedista, visto che in questi diciotto anni molte parti di quest’ultima sono state assimilate all’interno di quello che è il gruppo dei Talebani; dall’altra la presenza ormai certa di gruppi affiliati a Daesh non solo nelle regioni orientali dell’Afghanistan stesso, in cui appunto magari i talebani devono ingaggiare continuamente un conflitto con questi gruppi per poter assicurare la propria presenza e il proprio controllo del territorio, ma anche nella regione, dalle aree tribali pakistane nello stesso Kashmir, che da queste regioni possono poi pianificare degli attacchi anche in Afghanistan».

All’inizio della guerra in Afghanistan il termine “talebani” era diventato di uso comune e designava in modo anche più ampio i “nemici dell’Occidente”. Tuttavia i negoziati ci dicono che i Talebani oggi hanno un credito e un’immagine molto differente. Come ci siamo arrivati? Per pura necessità occidentale o effettivamente qualcosa è cambiato anche in seno al gruppo?

«Si è giunti a un momento storico in cui entrambe le parti avevano capito che probabilmente senza sedersi al tavolo difficilmente la guerra in Afghanistan potrebbe mai aver avuto una soluzione rapida. I talebani sono un gruppo molto specifico che in questi anni ha attraversato un’evoluzione, non solo in chiave di posizione politica. La cosiddetta “Shura di Quetta”, che rappresenta la testa politica del movimento, è in realtà un’organizzazione che c’è sempre stata e che serve da struttura organizzativa di tutto il gruppo. Quello a cui si è assistito in questi mesi è stata una frammentazione interna del gruppo stesso e quindi la nascita di tanti piccoli consigli politici più piccoli all’interno del gruppo, localizzati geograficamente in Afghanistan. Questo perché inevitabilmente, quando si va a combattere una guerra come quella in Afghanistan, così lunga, con una leadership politica che in realtà non risiede nel paese ma verosimilmente sta nel Balochistan pakistano, i comandanti locali diventano un punto di riferimento per i militanti sul terreno. Questo ha portato a una frammentazione del gruppo, che sembra rendere più complicata la definizione di un accordo».

In che senso?

In questo momento gli Stati Uniti stanno negoziando con quella che è la leadership ufficiale dei talebani, ma ci sono dei consigli locali che non guardano al negoziato in modo così positivo, quindi inevitabilmente prendono delle strade alternative che, banalmente, possono consistere nel non rispettare il cessate il fuoco quando questo viene concordato al tavolo in Qatar, oppure possono cominciare a strizzare l’occhio o peggio collaborare operativamente con altri gruppi, come quelli jihadisti».

La leadership politica dei Talebani e gli Stati Uniti stanno cercando di arrivare alla fine del conflitto, ma una volta raggiunta un’intesa ci sarà ancora moltissima strada da fare. Per esempio, al tavolo negoziale di Doha non si discute del reinserimento politico dei Talebani nel Paese. Questo potrebbe essere un problema, soprattutto vista anche l’esclusione per ora del governo afghano, che dovrà condurre trattative separate con i Talebani?

«Il grande problema in questo momento è proprio che a oggi il governo del presidente Ghani non è mai stato seduto al tavolo con i talebani. Parallelamente, i Talebani hanno condotto dei negoziati in Russia alternativi a quelli con gli Stati Uniti, con delle parti afghane che però non erano rappresentanti del governo in carica a Kabul, ma esponenti politici, leader locali, con cui i talebani si sono seduti al tavolo per capire se mai si potesse trovare un accordo. Questa esclusione del governo di unità nazionale da entrambi i negoziati ha un po’ piccato il presidente Ghani dal percorso verso una normalizzazione dei rapporti e d’altra parte ha messo in difficoltà il governo stesso in un momento molto importante per il Paese, perché ricordiamo che teoricamente a fine settembre si va a elezioni. Non è un segreto che le varie forze politiche e le varie fazioni politiche in Afghanistan hanno sempre molta difficoltà a riuscire a trovare la quadratura del cerchio, perché il panorama politico afghano porta con sè un grosso bagaglio di rapporti di potere e di clientele che poi devono essere messe a sistema nel momento in cui si parla della formazione di un governo e, come in questo caso, del reinserimento di un attore tanto importante per la storia del Paese come i talebani. La parte più difficile, inevitabilmente, sarà proprio la costruzione di un processo politico tra le parti afghane».

In caso di intesa, che cosa cambierebbe per l’impegno italiano in Afghanistan?

«Secondo quelli che sono gli accordi ad oggi sul tavolo, tutti i Paesi Nato dovrebbero ritirare i propri contingenti, ma non è ancora chiaro se potrà essere lasciata una parte a supporto della ricostruzione del Paese. Fino a ora, quello che si è capito è che la maggior parte o tutto il contingente italiano dovrebbe essere ritirato. Da qui si dovrebbe poi aprire il processo politico, quindi un impegno da parte delle istituzioni afghane di guardare verso l’esterno e magari di aprirsi agli aiuti della comunità internazionale per iniziare un processo di ricostruzione serio e sostenibile all’interno del Paese che dia poi all’Afghanistan quegli strumenti base con i quali provare a camminare con le proprie gambe dopo così tanti anni di guerra».