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Yemen, passi incerti contro la guerra

Ai margini della cronaca, ma al centro della crisi. La guerra in Yemen si può spesso riassumere lungo le linee che separano gli estremi: la più grave crisi umanitaria in corso nel mondo, almeno secondo le Nazioni Unite, continua ad apparire un fenomeno di secondo piano, anche se coinvolge milioni di persone e vede i civili pagare il prezzo più alto sia in termini di vite sia in termini di conseguenze sul lungo periodo. 

Lo scorso 30 luglio il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha presentato il rapporto annuale sui bambini e i conflitti armati, e al suo interno è possibile individuare una lunga sezione dedicata proprio al Paese più povero della Penisola arabica.

Solo nel 2018, è possibile leggere nel rapporto, almeno 729 bambini hanno perso la vita o sono rimasti feriti a causa dei bombardamenti aerei condotti dalla coalizione a guida saudita e dagli Emirati Arabi Uniti, responsabili nello stesso arco di tempo anche di quindici attacchi contro scuole e ospedali. Si tratta di quasi la metà dei poco meno di 1.700 minori uccisi o feriti nel conflitto soltanto nel 2018. Numeri che rappresentano un segno evidente delle violazioni commesse non soltanto dai gruppi ribelli, ma anche da quella forza multinazionale che sostiene militarmente il governo riconosciuto a livello internazionale. Eppure, la Coalizione non è stata inserita nella “lista nera”.

Questa scelta delle Nazioni Unite è criticata dall’organizzazione umanitaria Save the Children, presente in Yemen con ospedali e interventi d’emergenza. Michele Prosperi, portavoce dell’organizzazione, afferma che «sappiamo che lo Yemen è stato ormai dichiarato la più grande crisi umanitaria in corso e purtroppo in corso in modo assolutamente cruento, siamo al quarto anno e purtroppo gli effetti di questo conflitto sono devastanti su tutta la popolazione e in particolare sui bambini, perché questo conflitto si accanisce molto sui civili».

‑ Che cosa si ritrova nel rapporto?

«In questo rapporto vengono elencate e documentate le violazioni dei diritti dei bambini nelle aree di conflitto, gravi violazioni definite dalle Nazioni Unite che comprendono le uccisioni, le mutilazioni, il reclutamento dei bambini nei gruppi armati o negli eserciti, i rapimenti, gli abusi sessuali e la negazione dell’accesso degli aiuti umanitari. 

Purtroppo come Save The Children possiamo testimoniare che anche un ospedale a Kitaf da noi supportato è stato attaccato lo scorso marzo e sono morti 5 bambini. Non parliamo di report di carta, di cose che leggiamo, ma di cose che constatiamo direttamente».

‑ Che cosa significa essere inseriti nella “lista nera”?

«Letteralmente in inglese è la “lista della vergogna”, è la lista dei Paesi sottoposti a scrutinio particolare che devono essere fortemente richiamati, stigmatizzati di fronte alla comunità internazionale, richiamati alle loro gravissime responsabilità. La coalizione si trova invece in una sezione più “leggera” della lista dove si indica che in qualche maniera la parte in conflitto ha intrapreso delle misure o ha fatto dei progressi per proteggere i bambini che vivono nell’area del conflitto in questione. Ecco, noi vogliamo sottolineare che qualunque siano state queste misure, non hanno avuto alcun effetto, perché già all’inizio del 2019 si sono ripetuti attacchi violentissimi. Alla vigilia della presentazione del rapporto è stato colpito un mercato affollatissimo nel nord dello Yemen dove hanno perso la vita quattro bambini, altri undici sono rimasti feriti, noi siamo intervenuti immediatamente e li abbiamo trasportati ai nostri ospedali più vicini, li abbiamo curati e abbiamo raccolto le loro testimonianze, che sono purtroppo quelle di bambini terrorizzati che avevano visto morire i loro familiari o i loro amici sotto i loro occhi ancora una volta».

‑ L’impressione è che si sia voluto evitare uno scontro diplomatico con i sauditi e i loro alleati. Ma che cosa sarebbe cambiato?

«L’unica ragione per cui una parte in conflitto, in particolare se si parla di una forza strutturata, statale, tenga in considerazione questo aspetto drammatico e terribile che sono le conseguenze per i civili in generale e per i bambini in particolare è lo stigma, la responsabilità e la possibilità di essere chiamati a rispondere di questa responsabilità. 

Tutto questo avviene proprio attraverso gli strumenti preziosi creati dalle Nazioni Unite, che però naturalmente sono spesso ostaggio della diplomazia, delle pressioni anche di carattere politico. Ma non sono le pressioni politiche che devono guidare queste scelte, ma queste scelte riguardo rapporti così importanti che sono un riferimento devono essere fatte solo sulla base dei fatti verificati e certificati sul terreno».

‑ C’è però almeno una buona notizia che riguarda lo Yemen ed è arrivata in contemporanea con la presentazione del rapporto delle Nazioni Unite, e riguarda l’annuncio del gruppo industriale Rwm di aver recepito le indicazioni della politica e di aver sospeso per 18 mesi la produzione di armi e munizioni destinate all’Arabia Saudita. Un successo?

«Noi sappiamo che la coalizione saudita in Yemen, proprio in questi attacchi aerei, utilizza delle bombe che sono prodotte in Italia in Sardegna dalla Rwm, che è una azienda tedesca con uno stabilimento a Domusnovas. Proprio quest’anno a marzo avevamo lanciato la campagna “Stop alla guerra sui bambini” in occasione del centenario di Save the Children. Questa petizione ha raggiunto 120.000 firme e soprattutto ha mobilitato un coordinamento allargato della società civile a cui hanno partecipato anche Amnesty International, il Comitato per la riconversione della fabbrica Rwm in altre produzioni, la Fondazione Finanza Etica, il Movimento dei Focolari, Oxfam Italia, la Rete della pace e la Rete Disarmo. Tutti insieme abbiamo fatto pressione sul governo e siamo riusciti a ottenere che il governo determinasse la non concessione di nuove licenze alla Rwm per nuovi contratti con l’Arabia Saudita e soprattutto che sospendesse anche le forniture in essere a completamento degli ordini già fatti. Questa è una buona notizia perché è un segnale forte anche nei confronti di quel Paese, ma è anche un esempio di quello che possiamo fare, di come tutti i cittadini della comunità internazionale possano agire nei confronti dei loro governi per chiedere un’attenzione specifica e che in qualche maniera possa concretamente fare la differenza. Quindi direi che possiamo e dobbiamo ripartire da qui».