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Non basta un codice rosso

Nonostante da anni la politica italiana definisca la violenza di genere un’emergenza, il fenomeno rimane spesso sommerso. Secondo i dati aggregati da Istat, «è elevata la quota di donne che non parlano con nessuno della violenza subita (il 28,1% nel caso di violenze da partner, il 25,5% per quelle da non partner), di chi non denuncia (i tassi di denuncia riguardano il 12,2% delle violenza da partner e il 6% di quelle da non partner), di chi non cerca aiuto; ancora poche sono, infatti, le donne che si rivolgono ad un centro antiviolenza o in generale un servizio specializzato (rispettivamente il 3,7% nel caso di violenza nella coppia e l’1% per quelle al di fuori). Ma la cosa più preoccupante è che queste azioni sarebbero davvero essenziali per aiutare la donna ad uscire dalla violenza». Per provare, almeno parzialmente, a rispondere a questo problema, lo scorso 17 luglio il Senato ha approvato con 197 sì e 47 astenuti il disegno di legge di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, che ora è pronto per essere pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e diventare effettivo. Tra le principali novità, spicca la previsione di una corsia preferenziale per lo svolgimento delle indagini sui casi di violenza, che secondo la norma saranno più rapide e corrisponderanno a un inasprimento delle pene per reati commessi in contesti familiari o nell’ambito di rapporti di convivenza.

In caso di denuncia, la vittima dovrà essere ascoltata dal magistrato entro un massimo di tre giorni. Nel caso in cui venga accertata la violenza, il responsabile potrà essere condannato a una pena detentiva che va dai tre ai sette anni e che potrà essere aumentata fino alla metà se la violenza è avvenuta davanti ad un minore, a una persona con disabilità o a una donna incinta, oppure se l’aggressione è armata.

Inoltre, all’aumento delle pene per chi viene giudicato colpevole di stalking o di violenza sessuale si somma un nuovo reato per chi provoca la deformazione dell’aspetto della vittima, con lesioni permanenti al viso.

Per il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, «ora lo Stato dice ad alta voce che le donne in Italia non si toccano». Tuttavia, non mancano le visioni critiche. Tra queste, spicca quella di D.i.Re-Donne in rete contro la violenza, la più grande organizzazione nazionale che si occupa di violenza contro le donne. «Nessuno dei rilievi sollevati nel corso delle audizioni da D.i.Re e da innumerevoli altri esperti – afferma la presidente Lella Palladino – è stato preso in considerazione. Per le donne che subiscono violenza denunciare diventa ancora più rischioso».

L’avvocata penalista Elena Biaggioni, collaboratrice di D.i.Re che ha partecipato a tutte le audizioni in Camera e Senato, ribadisce che il cosiddetto “codice rosso” «faccia parte di quelle indicazioni che vengano date», tutte tese a denunciare «senza poi creare il sostegno per quello che accade immediatamente dopo la denuncia».

Che cosa succede dopo la denuncia e l’avvio del cosiddetto “codice rosso”?

«Il “codice rosso” è una modalità molto efficace di narrazione di questa legge, perché sicuramente attira attenzione. Si vorrebbe creare una corsia preferenziale per le donne vittime di violenza maschile che denunciano, ma in realtà si pone tutto l’accento sul momento della denuncia, addirittura introducendo l’obbligo di sentire queste donne entro tre giorni».

Questo non dovrebbe aiutare il percorso?

«No, è sbagliato, perché l’emersione della violenza di genere è una questione molto più complessa, non è solo la denuncia. È vero che è importante prestare attenzione alle denunce e a quanto succede immediatamente dopo, però anche all’interno delle denunce bisogna differenziare. Quello che noi avevamo chiesto era che questo limite dei tre giorni, per non essere banalizzato e per avere un senso, dovesse essere limitato ai casi di emergenza o ai casi ad alto rischio, non a tutte le eventualità, perché in questo caso può essere addirittura controproducente. Si pone l’accento solo sulla denuncia, anche perché è sempre facile. Questo riguarda un po’ tutto il sistema italiano legislativo: è molto facile aumentare le pene dal punto di vista della norma penale, quindi inasprire la sanzione, perché non comporta un costo diretto per lo Stato. Diverso sarebbe invece investire il denaro necessario per fornire competenza a questo percorso, perché per questo ci vogliono fondi».

Tuttavia, c’è un problema culturale che nessuna legge può cambiare nell’immediato: spesso chi denuncia non viene creduta, oppure si ridimensiona il valore della denuncia stessa. Come si interviene a quel livello?

«Formazione, formazione e formazione. È un percorso molto lungo e, ma è una questione che deve essere affrontata subito da moltissimi soggetti, una questione che va dalle scuole fino alla formazione di tutti gli operatori e le operatrici che entrano in contatto con una donna vittima di violenza. Siamo tutte e tutti portatori e portatrici di stereotipi, quindi per scardinare certi automatismi non basta un corso di 30 ore, che non serve a nulla. Gli operatori dovrebbero avere incontrato la questione già nella loro formazione scolastica, nella formazione per diventare, per esempio, ufficiale di polizia giudiziaria e poi durante, perché sono meccanismi che vanno in automatico e per essere contrastati devono essere rinnovati costantemente».

Di quali stereotipi si parla in particolare quando ci si riferisce alla violenza di genere?

«Il più classico è quello per cui una donna denuncia perché vuole guadagnarci qualcosa. È radicatissimo, e per sradicarlo bisogna intervenire costantemente, ricordarci che la domanda “perché denuncia?” ce la si fa solo per questo tipo di reati: nessuno ha mai il dubbio del perché qualcuno denuncia un furto. Quindi, tutte le volte che viene in mente questa questa domanda sarebbe utile avere un riferimento. È importante pensare in questi termini, forse sono proprio queste le cose che generano, piano piano, un cambiamento».