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Due anni in esilio per i Rohingya

Due anni di esilio e nessuna speranza di tornare a casa. Era l’estate del 2017 quando oltre 730.000 Rohingya, membri una minoranza di fede musulmana presente soprattutto nello stato di Rakhine, in Myanmar, lasciarono il loro Paese d’origine per fuggire in Bangladesh. La ragione della fuga in massa va cercata nelle storiche e ripetute violazioni dei diritti umani nei loro confronti da parte dell’esercito, accompagnate ad azioni violente condotte dalla maggioranza buddhista e intensificate nei mesi di agosto e settembre 2017, quando le violenze e persino le uccisioni di persone appartenenti alla comunità Rohingya divennero sempre forti. È dal 1982 che il governo birmano non riconosce i membri di questa minoranza come cittadini birmani, ritenendo invece i Rohingya persone immigrate illegalmente dal Bangladesh, che oggi è il Paese che più ha accolto la minoranza musulmana: i dati aggiornati al 15 luglio 2019 parlano di 912.114 persone, di cui oltre la metà bambini, rifugiatesi in quello che è uno degli Stati più poveri al mondo.

Martedì 16 luglio il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha deciso di compiere un passo formale, il primo nel suo genere, vietando al capo dell’esercito del Myanmar, Min Aung Hlaing, e ad altri tre alti ufficiali di entrare in territorio statunitense, definendo le violenze contro i Rohingya come “pulizia etnica”. Il Segretario di Stato di Washington, Mike Pompeo, ha annunciato che gli Stati Uniti sono preoccupati del fatto che «il governo birmano non abbia intrapreso azioni per ritenere responsabili i responsabili di violazioni dei diritti umani e abusi, e ci sono continue segnalazioni di militari birmani che commettono violazioni dei diritti umani e abusi in tutto il paese». Oltretutto, il capo dell’esercito nei mesi scorsi ha ordinato la scarcerazione dei soldati che erano stati condannati per l’uccisione di membri dell’etnia musulmana nel villaggio di Inn Din, dove avvenne una vera e propria pulizia etnica, ulteriore segno di un negazionismo che è lontano dall’essere superato.

A distanza di due anni dall’esodo, non ci sono segni di un possibile ritorno a casa per i Rohingya. Nelle scorse settimane nello Stato del Rakhine sono state consegnate centinaia di nuove case alle famiglie che avevano perso la casa durante la crisi del 2017, ma nessuna di quelle abitazioni è stata destinata a membri della minoranza musulmana, costretti quindi a rimanere in Bangladesh. Maa Dhaka si comincia a non riuscire più a gestire l’accoglienza.

Durante una visita al campo profughi di Cox’s Bazar, infatti, l’ex Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha affermato che «non è possibile per il Bangladesh ospitare un così grande numero di Rohingya ancora per molto tempo». Bangladesh e Myanmar avevano infatti firmato un accordo di rimpatrio nel novembre 2017, con un termine di due anni, ma il rimpatrio è stato posticipato a tempo indeterminato a causa delle preoccupazioni sulla sicurezza della minoranza se dovesse tornare nel Rakhine.

Secondo un rapporto dal titolo Migrazione forzata dei Rohingya: l’esperienza non raccontata, pubblicata dall’istituto canadese Ontario International Development Agency, dal 25 agosto 2017 a oggi circa 24.000 Rohingya sono stati uccisi dalle forze di sicurezza del Myanmar e oltre 34.000 persone sono stati coinvolte in incendi alle abitazioni, mentre più di 114.000 membri della minoranza sono stati picchiati. Circa 18.000 donne e ragazze Rohingya sono state stuprate dall’esercito e dalla polizia del Myanmar e oltre 115.000 case dei Rohingya sono state bruciate e altre 113.000 sono state vandalizzate.

Per contro, il governo del Myanmar ha negato le accuse di persecuzione contro i Rohingya e afferma che la sua campagna militare nello Stato del Rakhine settentrionale è stata una risposta agli attacchi condotti dai ribelli della minoranza, accusati di voler sovvertire la stabilità del Paese.

L’ex segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha affermato che il rimpatrio sicuro e dignitoso degli sfollati è necessario per la risoluzione della crisi umanitaria e politica che riguarda i Rohingya, una crisi che appare sempre più profonda anche osservando i segni che arrivano da uno dei servizi più critici per una comunità in esilio: la scuola.

Mezzo milione di bambini rifugiati, infatti, sono stati allontanati dalle scuole locali in Bangladesh, costringendo moltissimi bambini a recarsi nelle scuole religiose all’interno dei campi profughi, dove gli standard di istruzione sono bassi e gli studenti sono vulnerabili all’indottrinamento.

Mentre la lingua e la cultura rohingya sono simili a quelle del Bangladesh sud-orientale, le autorità di Dhaka considerano i Rohingya come ospiti temporanei e ai loro bambini oggi è negato l’accesso alle scuole locali. L’International Crisis Group ha affermato in un recente rapporto che non ci sono prove che le madrase promuovano violenza, intolleranza o indottrinamento da parte degli estremisti.

«La politica di negare ai giovani l’istruzione formale e lasciarli affidati a madrase non regolamentate – spiega un recente rapporto curato dall’istituto di ricerca statunitense International Crisis Group – aumenta quasi certamente il rischio che i gruppi estremisti guadagnino terreno nei campi».

Per i Rohingya, il rischio di avere una generazione perduta dentro una popolazione in esilio è sempre più concreta.