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Ergastolo e diritti umani

«È inammissibile privare le persone della libertà senza impegnarsi per la loro riabilitazione e senza fornire la possibilità di riconquistare quella libertà in una data futura». Un concetto che dovrebbe essere pacifico in ogni Paese civile, laddove vige lo stato di diritto. In Italia, però, soprattutto in tempi in cui avanza l’idea che i rei debbano “marcire in galera“ e che per certi reati occorra “buttare via la chiave“ (della cella, ovviamente), questo concetto basilare non è così immediato. Ci è voluta una sentenza di condanna verso l’Italia della Corte europea dei diritti umani (Cedu) di Strasburgo, per richiamare il nostro Paese al rispetto di questi diritti.

La questione riguarda il cosiddetto “fine pena mai“, ovvero l’ergastolo ostativo che si applica a persone accusate di reati di particolare gravità, come quelli di mafia o terrorismo. È una pena destinata a coincidere, nella sua durata, con l’intera vita del condannato. A sollevare il caso davanti ai giudici di Strasburgo è stato Marcello Viola, in carcere dall’inizio degli anni Novanta per associazione mafiosa, omicidio, rapimento e detenzione d’armi. Viola, che sinora ha deciso di non collaborare con la giustizia, si è visto rifiutare le richieste per i permessi premio nonostante l’accertata buona condotta e l’evoluzione in positivo della sua personalità. Il punto, infatti, è proprio qui: in assenza di collaborazione con la giustizia per i condannati per certi reati particolarmente gravi non esistono possibilità di ottenere i benefici previsti per gli altri detenuti. Secondo i giudici di Strasburgo, la legge va contro la dignità umana e sottopone a trattamenti inumani i detenuti quando a priori – appunto perché non collaborano con la giustizia – impedisce loro di ottenere permessi premio, la semilibertà o la libertà condizionale, oppure di lavorare fuori dal carcere. I giudici di Strasburgo, infatti, affermano che il detenuto può avere molte ragioni per non collaborare (ci sono alcuni condannati che, comprensibilmente, temono ritorsioni verso i familiari), e osserva d’altro canto che la collaborazione non significhi necessariamente che la persona abbia interrotto ogni contatto con le associazioni per delinquere e che quindi non sia più un pericolo per la società. 

D’altronde, il “fine pena mai“ contrasta evidentemente non solo con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (che vieta i trattamenti degradanti e inumani) ma anche con il fine rieducativo della pena sancito dall’articolo 27 della nostra Costituzione. La sentenza di condanna non cambia, per ora, la situazione di Viola che aveva chiesto un risarcimento di 50.000 euro, mentre l’Italia è stata condannata solo al pagamento di 6000 euro di spese processuali. Al di là di questo, però, si tratta certamente di una sentenza importante «un pronunciamento storico» come commenta Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino, l’associazione da anni impegnata con il Partito radicale per l’abolizione dell’ergastolo ostativo. Una sentenza che si aggiunge ad altre condanne ricevute dall’Italia da parte della Cedu in materia di carcere, visti i grossi problemi di sovraffollamento in cui versa il nostro sistema penitenziario, con gravi ripercussioni sulla vita dei detenuti, ma anche di chi lavora nel carcere a vario titolo.

Del tema carceri e, più nello specifico, della questione dell’ergastolo ostativo si è occupato il Sinodo valdese e metodista del 2017. Dopo un’interessante “Giornata teologica Miegge“ (con la proiezione del docufilm Spes contra Spem) nel Sinodo è stato presentato un ordine del giorno contro l’ergastolo ostativo definito un “trattamento contrario allo spirito evangelico della grazia e della speranza”. L’ordine del giorno ha diviso in due l’assemblea e il peso degli astenuti ha portato alla sua bocciatura. A parere di chi scrive, il Sinodo valdese e metodista, spesso felicemente all’avanguardia su temi come l’accoglienza degli immigrati e la lotta contro l’omofobia, sull’argomento della giustizia e del carcere non ha avuto (anche in precedenza) lo stesso coraggio. La sentenza della Cedu, oltre a essere uno schiaffo all’Italia, può essere forse uno stimolo per il Sinodo a riaffrontare il tema con quel coraggio evangelico che, in tempi di giustizialismo forcaiolo, è sempre più urgente.