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A Napoli una delegazione evangelica in visita sulla Open Arms

Da alcuni giorni la Open Arms, rimorchiatore della Ong spagnola ProActiva, protagonista di numerosi salvataggi nel Mar Mediterraneo, è ormeggiata nel porto di Napoli. 

L’imbarcazione è arrivata in città il 16 giugno scorso, rispondendo all’invito del sindaco Luigi De Magistris che pubblicamente ha dichiarato: «Napoli sostiene le Ong impegnate a salvare vite umane nel mar Mediterraneo e che coraggiosamente sono anche testimoni di giustizia per i crimini contro l’umanità commessi da governanti senza scrupoli. Napoli non è né complice né indifferente».

La Open Arms torna in Italia per aprire le sue porte alla cittadinanza. Ieri, giornata internazionale del rifugiato, in tanti – anche molti bambini – sono saliti sulla nave. Anche una piccola delegazione delle chiese evangeliche del napoletano (battista, luterana, metodista e valdese) ha voluto con la propria presenza esprimere solidarietà all’equipaggio. Ad accogliere calorosamente il gruppo è stata Veronica Alfonsi, coordinatrice della sede italiana di Proactiva Open Arms. A lei, la pastora valdese Thesie Mueller ha consegnato una copia dell’Atto sull’accoglienza che il IV Distretto delle chiese valdesi e metodiste ha votato durante la recente Conferenza. Le parole di benvenuto di Veronica Alfonsi si trasformano subito in un ringraziamento alla Federazione delle chiese evangeliche in Italia, che a maggio 2018 ha siglato un accordo di partenariato con ProActiva, e nello specifico a Paolo Naso, coordinatore del progetto Mediterranean Hope. 

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Veronica Alfonsi, dopo aver illustrato gli esordi della Open Arms, organizzazione non governativa la cui principale missione è proteggere con la sua presenza in mare le persone che cercano di raggiungere l’Europa fuggendo da guerre, persecuzioni o povertà, racconta la criminalizzazione che in questi ultimi anni stanno subendo le Ong.

«Se da un lato l’operatività delle Ong in mare è sempre più ostacolata – ci racconta Alfonsi – dall’altro le persone continuano a partire e a morire nel Mediterraneo. In mare stiamo assistendo a dei veri e propri respingimenti che sono vietati per legge dalla Convenzione di Ginevra. L’Europa sta dando soldi alle milizie armate libiche per prendere persone e portarle indietro in Libia. Ma è proprio dai centri di detenzioni di quel paese che le persone – torturate, stuprate come attesta l’ultimo rapporto ONU – fuggono!».

L’ultima missione di Open Arms si è svolta a dicembre: circa 300 persone sono state tratte in salvo, tra cui una bimba di soli 3 giorni: la mamma l’ha data alla luce poche ore prima di salire su un barcone. Prima di avere il permesso di attraccare in un porto, la nave è rimasta in mare 10 giorni.

Lo sguardo si muove velocemente a guardare lo spazio non ampissimo della nave dove erano sistemati i 300 migranti. Cosa deve essere stato rimanere stipati per tanto tempo in mare, senza sapere la destinazione finale: nuovamente in Libia? O finalmente nell’agognata Europa?

Pensando al lavoro di Veronica e dei circa 18 volontari che dedicano la propria professionalità, tempo, risorse al salvataggio di vite umane, come si fa a non essere schiacciati dinanzi alla visione di quei corpi che portano i segni delle torture o delle piaghe dovute alla miscela corrosiva di gasolio e acqua di mare? Come si fa a resistere al dolore, alla sofferenza e alla morte insensata di tanti uomini, donne e anche bambini?

«Il Mediterraneo è stato definito “territorio di guerra” – prosegue Veronica Alfonsi –. Ci confrontiamo con emozioni forti che hanno a che fare con la vita e con la morte. Come volontari disponiamo a terra di un team di psicologi specializzati in situazioni di crisi e che ci aiutano a gestire le esperienze vissute a bordo, a prevenire la comparsa di stress post traumatico, in modo da garantire la stabilità emotiva che è necessaria per affrontare le missioni successive. È dura! Ma se non ci siamo noi, chi racconterà questo massacro che sta avvenendo? L’attacco ad Open Arms e a tutte le altre Ong che fanno ricerca e salvataggio in mare è perché siamo dei testimoni scomodi. Le foto, le registrazioni radio, le testimonianze raccolte dai giornalisti che ci accompagnano nelle missioni, sarà tutto materiale che servirà per la storia, quando alla Corte europea dei diritti dell’uomo si chiederà giustizia per le migliaia di persone migranti e rifugiate, morte annegate. L’Europa tutta dovrà rispondere di quanto sta avvenendo nel Mediterraneo». 

Dopo la visita dell’imbarcazione, la delegazione evangelica ha assistito insieme ai tanti presenti sulla Open Arms allo spettacolo teatrale «629 – Uomini in gabbia», un progetto firmato da Mario Gelardi su testi di alcuni scrittori spagnoli, greci e italiani. I monologhi, affidati ad alcuni bravi giovani attori della compagnia Nuovo Teatro Sanità, hanno emozionato, informato, coinvolto i presenti facendo spazio alla denuncia e alla riflessione. «Che almeno si salvi il mio nome», ha urlato il giovane migrante raccontando la sua fuga nel deserto, le torture, la separazione dal padre, finalmente l’imbarco su un gommone di fortuna. 

L’Europa ha il dovere di salvare insieme ai nomi anche i corpi e le storie di tanti uomini, donne e bambini che sognano un futuro migliore: altrimenti perderà miseramente la sfida più importante dalla sua creazione.