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Export armi nel segno della continuità

Lo scorso 13 maggio, con oltre un mese di ritardo sulla data prevista per legge, è stata pubblicata sul sito della Camera dei Deputati la relazione governativa sull’export italiano di armamenti relativo alle autorizzazioni concesse e le consegne avvenute nel 2018.

Il documento, redatto dal governo e dall’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento (Uama), segnala che il valore delle autorizzazioni all’esportazione è dimezzato, passando dai dieci miliardi di euro del 2017 a poco più di 5 miliardi. Ma che cosa racconta questo dato? Significa che siamo diventati un Paese disarmista?

Secondo Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Disarmo, «vanno distinti i numeri relativi alle licenze o autorizzazioni e i numeri di export. I primi ci dicono quanto è stato autorizzato, quindi quanto in prospettiva, in potenza, l’industria militare italiana potrà andare a esportare. Sono dati importanti perché danno un’idea della direzione politica che il governo vuol dare al nostro export, che secondo la legge dev’essere allineato alla nostra politica estera. I dati di export definitivo, invece, che non ci dà il ministero degli Esteri ma ci l’agenzia delle dogane, ci dicono quanto effettivamente è stato venduto, cioè quanto delle licenze rilasciate negli anni precedenti viene effettivamente realizzato. Il dimezzamento delle autorizzazioni è significativo nel futuro, ma soprattutto perché non ci sono più state le due mega commesse che hanno contraddistinto gli ultimi anni, cioè quella delle armi al Qatar e degli aerei al Kuwait».

La traduzione di questi numeri in volontà politica sarebbe però scorretto: è difficile dire o meno se il governo Conte abbia esercitato maggior prudenza o maggiori restrizioni sulle esportazioni. Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e le Politiche di Sicurezza e Difesa di Brescia (Opal), spiega che «si tratta di un calo fisiologico dovuto ai consistenti ordinativi di armamenti assunti negli anni scorsi: si tratta di oltre 32 miliardi di euro nel triennio 2015-17, in gran parte per sistemi militari complessi (aerei, elicotteri, navi, ecc.), la cui produzione sta impegnando e terrà impegnate le nostre aziende militari per diversi anni. Anche nel 2018 le aziende del settore armiero hanno lavorato a pieno ritmo fornendo sistemi militari a più di 90 paesi per un valore complessivo di oltre 2 miliardi e 225 milioni di euro».

«Negli ultimi 4 anni – prosegue Vignarca – sono stati autorizzati complessivamente trasferimenti per due volte e mezzo quello che era stato autorizzato nei quattro anni precedenti. Questo vuol dire che il trend è quello di autorizzare molto di più, permettere di spostare molto di più, e tutto questo lo vedremo nei prossimi anni, quando effettivamente la produzione si concretizzerà». Se si guarda in modo più preciso alle zone di destinazione degli armamenti italiani, è possibile notare un grado di continuità ancora maggiore. «Guardando ai dati in modo qualitativo – spiega Francesco Vignarca – vediamo che oltre il 70% delle licenze, quindi delle armi che verranno costruite nel futuro, andranno a finire a Paesi che non sono né nell’Unione europea né nella NATO: troviamo il Qatar, il Pakistan, la Turchia, gli Emirati Arabi Uniti. Stiamo confermando il trend che ci vede avere licenze per vendere armi a Paesi che non sono i nostri naturali alleati, e tutto ciò oltre che essere problematico perché vuol dire che le armi finiscono nelle aree più calde del mondo non è nemmeno allineato con la nostra legge che vorrebbe un privilegio verso quelli che sono i nostri partner naturali, i alleati in politica estera».

Tra i maggiori acquirenti, nel 2018 come in passato, si trovano i paesi che si affacciano sul Mediterraneo o sul Golfo Persico: oltre 2,3 miliardi di euro, pari al 48% delle autorizzazioni all’esportazione. Nel dettaglio, scorrendo la classifica, si trovano il Qatar (1,9 miliardi di euro), il Pakistan (682 milioni), la Turchia (362 milioni), gli Emirati Arabi Uniti (220 milioni) e l’India (54 milioni). Inoltre, non risulta ancora superato un problema storico della nostra politica di esportazione delle armi: la trasparenza. «Negli ultimi 20 anni – racconta Vignarca – abbiamo visto che pochissime volte, appena in due o tre occasioni, il Parlamento ha preso in mano la relazione, l’ha analizzata e ha dato indicazioni in futuro. Questo è veramente un vulnus di trasparenza e soprattutto di controllo democratico. La legge sul commercio delle armi non è una legge pacifista, è una legge che permette il commercio delle armi, però proprio per evitare scandali e problemi di alimentazione dei conflitti da parte delle nostre armi prevede che sia il Parlamento a controllare, prevede che sia il Parlamento a dire “questo ci va bene, questo non ci va bene”.

Ma se i dati sono così frammentari, se i dati sono così problematici, se alcuni dati non vengono diffusi dall’attività di controllo perché dice “potrebbero minare la competitività delle imprese”, cioè si privilegia l’industria rispetto al controllo democratico c’è un problema». Negli ultimi anni, la trasparenza del sistema non è stata garantita in alcun modo, al punto che gli unici risultati sono stati ottenuti incrociando dati molto grandi e molto specifici. «La stragrande maggioranza delle licenze e poi delle consegne – conclude Vignarca – non è tracciabile. Paradossalmente ne sappiamo di più perché le industrie fanno comunicati, contente di vendere, piuttosto che dai dati ufficiali, perché non ci permettono di avere un incrocio, non ci permettono di sapere quale azienda ha venduto a quale Paese e per quale importo. Da una parte ci balzano all’occhio le grosse commesse per i nostri sistemi d’arma, ma in realtà poi le armi che vengono maggiormente usate sono le munizioni, sono i missili, sono gli ordigni di questa natura, e noi non avremmo saputo nulla delle consegne ad esempio verso l’Arabia Saudita, che tanto sono state alle cronache, se non ci fosse stata una mega commessa da 400 milioni, perché quelle più piccole, da 20, 30 o 40 milioni, che però sono un sacco di bombe e un sacco di missili, scompaiono alla nostra tracciabilità, proprio perché mancano informazioni di base. Noi continueremo a batterci perché questa è un’informazione che va data all’informazione pubblica ma soprattutto ai parlamentari».