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«Abbiamo bisogno di più Europa, non di meno Europa»

Tra i Paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo, che negli ultimi anni sono stati più interessati dai flussi migratori, la Spagna, impegnata su fronti politici interni come l’indipendentismo catalano e i complessi rapporti fra governo centrale e comunità autonome, non ha avuto un ruolo di primo piano se non in anni recenti. Tra il 2016 e il 2017 il paese ha visto un notevole aumento degli arrivi, da 8.100 a 22.000, mentre nello stesso periodo Italia e Grecia vedevano una forte diminuzione. Nel primo semestre 2018, i numeri dei tre paesi (dati Unhcr) erano quasi allineati: circa 12.000 in Grecia e Spagna, un po’ più di 15.000 in Italia. L’aumento più drastico per la Spagna si è avuto nel secondo semestre 2018, e dei 26.500 arrivi del primo semestre di quest’anno 10.500 sono verso la Spagna, 13.600 in Grecia e appena 1500 in Italia. Lontane le cifre della “crisi migratoria” del 2015, con un milione di arrivi. Se i dati parlano di un nuovo calo negli ultimi mesi, diverse organizzazioni in Spagna lanciano l’allarme sull’aumento sproporzionato di decessi e sparizioni e su una militarizzazione al confine meridionale del paese, sia a terra che via mare, in parallelo all’accordo con il Marocco perché si prenda carico dei migranti. 

E la situazione interna spagnola? Le elezioni di fine aprile (terze in meno di quattro anni) hanno visto la vittoria dei socialisti, in un contesto di avanzata delle destre a livello europeo, ma anche nazionale, come ci spiega il pastore Alfredo Abad, presidente della Iglesia Evangélica Española e della Cepple, la Conferenza delle Chiese protestanti dei Paesi latini d’Europa, che conferma che l’evoluzione più recente si è avuta nel Parlamento nazionale e nel parlamento regionale in Andalusia, dove si sta concentrando il grosso dei flussi, e dove ha vinto la destra radicale neofranchista e sovranista di Vox

Commenta il pastore Abad: «I gruppi dell’estrema destra si sono rafforzati e hanno introdotto pesantemente l’elemento dell’antieuropeismo. Vediamo ora le conseguenze della Brexit, per il fatto che molti spagnoli vivono in Gran Bretagna e molti inglesi vivono in Spagna, e un elemento cruciale è la politica comune verso l’immigrazione».

Il nuovo governo socialista cambierà le cose? «Ha fatto qualche piccolo cambiamento, accogliendo più persone e da nuove provenienze (per esempio sono molto in crescita i flussi dal Venezuela) con lo sviluppo della protezione internazionale, ma questo non significa che sia stato attuato un cambiamento nel reale status dei rifugiati, che è ancora basso. La politica continua a essere restrittiva e non sviluppa una reale integrazione, gli investimenti continuano a essere controllati a livello nazionale compromettendo i risultati a livello regionale e locale: dobbiamo dare fondi alle comunità locali per realizzare l’integrazione delle persone. Non demandare solo alla politica nazionale la gestione del fenomeno o il mantenimento dello status quo, senza affrontare veramente la complessità della situazione».

Il sistema di protezione internazionale non è adeguato, accusa Abad: «Va bene per periodi limitati e non per tutti i casi, ma non sicuramente per un’integrazione duratura. Ricerche universitarie di Madrid molto dettagliate ci dicono quali problemi incontrano i migranti senza una reale integrazione, in termini di lavoro, alloggio; per chi esce dai sistemi di protezione internazionale è molto facile passare alla condizione di illegalità. È un sistema che non dà reali opportunità, costringe a vivere in un contesto estraneo dalla realtà».

Dal momento che il governo privilegia ancora i grandi centri, la società civile e le chiese si sono attivate per una forma di accoglienza più diffusa, continua il pastore, «non all’interno della cornice della protezione internazionale istituzionalizzata (che pure si sta sviluppando, abbiamo al momento in Spagna quasi 10.000 posti di protezione internazionale) bensì in collaborazione con le ong, coinvolgendo persone escluse dai consueti sistemi di accoglienza, senza i soldi pubblici, nazionali o europei, ma con fondi propri».

A proposito di Europa, la posizione della Iglesia è molto chiara: «La nostra chiesa è necessariamente a favore dello sviluppo di una politica europea e abbiamo aderito al documento della Conferenza delle chiese europee (Kek, con la campagna “L’Europa è il nostro futuro”, nda) per una responsabilizzazione delle persone in vista delle elezioni. Pensiamo che abbiamo bisogno di molta più Europa, non di meno Europa e di un’Europa più sviluppata dal punto di vista istituzionale. Per noi la sua più grande fragilità attuale è il fatto di essere un’unione economica, ma senza una politica istituzionale unica e nella crisi emerge questa fragilità, questa mancanza di politica comune, se non quella a favore delle banche, ma che non aiuta realmente i paesi del sud Europa. La mancanza di una politica comune sulle migrazioni ci fa sbilanciare verso i paesi che rifiutano la realtà della solidarietà, dei diritti delle persone e dei migranti. Se non attuiamo un forte sviluppo politico-istituzionale dell’Europa, perderemo gli standard europei: in Spagna le chiese le chiese hanno reagito per mantenere questi standard, ma l’esperienza ai confini ci parla della perdita della tutela dei diritti di tutte le persone, non soltanto migranti ma anche studenti, lavoratori…».